APPUNTI CRITICI


Manuel Cohen su Di me diranno e su Il guado della neve

 

C’è un sottile doppio filo, una coordinata tenace, che tiene salde, come in una coerenza interna, le tre raccolte precedenti (Nei Margini della Storia, 2000; I Fasti del Grigio, 2005; L’onore della polvere, 2009) e i due nuovi lavori di Luca Benassi, nato a Roma nel 1976, città in cui vive, e in cui si occupa, tra l’altro, di letteratura, infaticabilmente recensendo e presentando libri, curando rassegne e letture, e destinando parte considerevole della sua sollecitudine militante a generosa a tantissimi autori che spesso non possiedono ‘grandi pacchetti’ di lettori forti e curiosi. Un filo, dicevo. Rintracciabile già ad altezza dei titoli, veri enunciati programmatici del testo, spie di significazione: si tratta di enunciati a forte pregnanza metaforica, che marcano campi semantici - siamo nei domini dell’analogia - e che rinviano ad una dimensione alta, meglio, ad un vero e proprio Ethos. Anche la quarta raccolta di versi è fedele a questo dato: Il guado della neve. Che siamo al cospetto di una scrittura connotata di eticità, e avvertibile dalla lingua medesima, dalla tonalità: che è sobria, austera, ma decisamente alta, tesa a un filo. Lo spazio e l’orizzonte del verso, e delle storie a cui rinvia, è uno spazio fisico concretissimo, di naturale ostilità o asprezza, che rinvia idealmente alle alture del Golan, agli altipiani del Sinài, di una natura arcaica e severa, non dissimili da quelli, più a portata di sguardo, della Sardegna. Qui, dove una “lingua di pietra” (il ballo tondo, p.22) invita alla lallazione di un antichissimo rito, un ballo o motivo accennato da un refrain (in anafora) fortemente accentato, dattilico quasi: “Bacia oro bacia nero bacia amaro / bacia amore”, incantatore e dionisiaco, qui, dunque, Il guado della neve si apre classicamente con l’invocazione alla Musa: “Dicci la strada, curva su curva / albero dopo albero lontano dal mare / racconta il tornante, accendi / un fuoco di mirto” (p.20). Come suggerisce Erminia Passannanti nel suo acuminato intervento, il titolo rinvia (oltre la metafora, e ancor più polisemicamente) ad una delle probabili etimologie del paese di Baunei (Olgiastra): Bau ‘e Nie. Ho accennato a scenari mediorientali e a paesaggi isolani, sardi: coincidenti e portatori insieme di un respiro veterotestamentario e un impeto pagano. Sono il doppio filo di significazione e orientamento di cui scrivevo all’inizio: quasi una sovrapponibile doppia cultura di riferimento. E la lingua, come il paesaggio, è arcaicamente ‘petrosa’ e salmodiante, colma di implicazioni paniche (etnografiche e proprie di una phonè o cultura millenaria e orale) ed ontologiche, anche quando il verso si presenta più disteso e dilatato, o incline ad una confidenzialità o franchezza nei toni: “Ti diamo la prima buona notte della terra: / c’è una musa per questo, una stella incerta che buca / la lapide pregando in una lingua senza scrittura. / Mentre la sera chiude la faccia stralunata al mare / il maestrale come un salmo sgranato / piega una terra fatta di sangue” (p.30) Dove appare strategico l’uso dell’avverbio ‘mentre’ a demarcare un confine (forse una distanza) tra un noi fisico ed una natura (naturans, viene da dirla, non governabile) lei, così fortemente decisiva). Il libro poi, splendido nella sua completezza di sguardo, riserva, nella sezione eponima, sorprese ulteriori: il lettore si ritrova al cospetto di due suite o poemetti in prosa, che della prosa hanno la lunghezza, mentre nella durata si coglie la bellezza di veri e propri prosimetri: “Questo è il vento del fuoco, un guizzo rosso senza sorriso oltre il filo spinato, una maschera nera che danza in tondo a carnevale, un’orbita vuota incisa nel legno, vestita di dolore, una carne arrostita nei giorni di festa.”(p.43). Prosimetri che marcano pure Di me diranno, una bellissima plaquette che raduna sette (un numero caro alla Cabala) prose poetiche, o simil-prose, o quasi-prose. Anche qui riferimenti sacroscritturali: si tratta di brevi aneddoti, storie accoglienti da narrazione per bimbi (e per adulti), i cui titoli rinviano chiaramente ai Vangeli: Il bue, il fico, il gallo, la croce… Sono splendide parabole sulla significazione della vita e del dolore, dell’offerta e del dono, in una lingua elementare e potente, che in autonomia riusa e riattiva simboli e senso (e sensi, in una fisicità mai sconfessata) efficaci per felicità di sintesi e profondità di sguardo.

 

 

Dante Maffìa su Il guado della neve, Piateda, Edizioni CFR, 2012

 

Libro complesso e denso, ricco di una quantità di motivi attualissimi e, nello stesso tempo,  legati alla tradizione; fondato, acceso da una forza che vuole indagare il senso vero e nuovo di una situazione umana e storica che ha movimenti arcani e valenze apparentemente arbitrarie, ma che sono alla base di idee di grande umanità, di progetti che indicano strade nuove, cioè il guado, dove esso sia, dovunque porti purché faccia uscire dal pantano.

Ho letto con estremo interesse la prefazione dettagliata e dotta di Erminia Passannanti, notoriamente brava, colta, profonda, ma devo dire che mi sono disorientato, e anzi non ci ho capito niente. Non mi sembrava che i versi di Luca Benassi accendessero astrazioni così palesi, che portassero così lontano nelle divaricazioni più difficili delle poetiche di autori peraltro, almeno credo, lontani dagli assunti di Benassi.

Che c’entra Clemente Rebora, che c’entra Milo De Angelis, e poi Biagio Cepollaro, e Leopardi, e Pavese, e Seamus Heaney, e Ted Hughes?

L’impressione è che si sia voluto leggere Benassi come se fosse un figlio, legittimo o illegittimo, di svariate letterature, uno fluttuante e vagante e soprattutto legato a una religiosità (Rebora, Dio ce ne liberi!) chiusa nei parametri di un discorso articolato su cadenze improprie.

A me, che lo seguo dagli esordi, sembra che abbia una sua voce chiara e risentita, che certamente è passata al fuoco della controversia di molte esperienze, ma che ha subito trovato il suo timbro, la sua cifra, la sua cadenza, la sua dizione limpida e chiara.

Limpida e chiara perché Luca Benassi nasce da lontano, attraversa i classici (non è casuale che anche per Il guado della neve citi Sofocle e la Bibbia) e non improvvisa, non si ferma alla superficie, ma affonda la sua indagine nel corpo vivo del senso e della parola.

Questa volta lo fa partendo da dati di fatto, non da fantasie, non da esperienze astratte o di sogno e la partita quindi assume una valenza umana con forti rischi di fraintendimento se non si resta a una lettura aderente alla tematica espressa.. La poesia nasce da distillazioni lente e ponderate, da pazienti accordi del senso con la musica e con la labilità dell’essere e quando si trova a fare i conti con la pesantezza della realtà immediata ha bisogno di filtri linguistici e di accordi maturi. Benassi ce l’ha, li ha conquistati direi da subito e allora diamogli quel che gli spetta: l’autonomia del dettato; basta col vezzo di far scaturire da ragioni immediate la voce dei poeti quando sono tali effettivamente. Benassi ha saputo uscire dalle grinfie di molti suoni, dalle abili mani delle tessitrici greche per approdare a una Sardegna diversa da quella che conosciamo.

Ma andiamo al libro.

“Un tempio di pietra con gradini di vento”. Ecco, è quei gradini che bisogna attraversare, affidandosi alla “donna straniera” per potersi salvare, per salvarla. Non si sa bene se le parti siano invertite oppure se occorre davvero “Il ballo tondo” per poter giungere al saluto dei figli, dei nipoti, di “quelli che ti hanno amato / l’estrema generazione”.

Oppure bisogna essere fermi nella tradizione, nel rispetto di regole che hanno secoli sulle spalle, e allora ecco i versi che troviamo a pagina 32, in cui c’è un ritratto di come stanno veramente le cose, un ritratto della Sardegna più dolce e amara, più piena di contrasti e di assuefazioni, di ribellioni e di attese:

 

“Non c’è paura da queste parti

forse la tristezza secolare

come l’ulivo grande

al centro della piazza:

la tristezza che ingorga la risacca,

l’ultima onda del giorno

che porta uno straniero

una ricchezza da rapire

sognata nel silenzio della cena.

La birra si addormenta

nella bottiglia lasciata a mezzo

al tavolo del bar

si chiede speranza, quattro volti

uno sparo di caccia, un uomo

da prendere senza fargli del male.

Il lamento del cane gorgoglia nel vento

Il sentiero di macchia è un mare

Con isole bianche:

gli uomini camminano

braccati dalla luna incinta di notte

affidato a un orecchio mozzato

un riscatto da chiedere

una lettera da scrivere ancora”.

 

E poi i rituali:

“Zia Maria / ci ha dato la via della grotta, il segreto dell’acqua”.

Il passo dal segreto dell’acqua a Il dovere dell’acqua è immediato e così La linea di luce trova consistenza a bagliori di verità assolute e proprio in una sorta di estraniamento del senso che muta in altro senso, che attraversa il guado dei sensi e anche quando tocca “il corpo dell’acqua” , quando “una donna si spoglia / per scendere nel pozzo”.

Poesia esoterica, in cui frammenti di ricordi guizzano e si impastano al fluire leggero dei sensi, al passaggio rapido, al “suono dolce e nero dell’acqua di vena”.

C’è un disegno che corre rapido da pagina a pagina, eppure tutto sembra dissolversi in acquisizioni che portano alla sorgente-donna (“tu sei sorgente, tu sei acqua”), quindi quasi imprendibile, comunque liquida e rapida, ecco perché a volte si ha bisogno di ubriacarsi, magari al cospetto di Dio. Da qui è quasi naturale che nasca Lanusei blues che sembra una scultura tanto è ferma nelle affermazioni, nelle immagini, nella ricostruzione dei momenti solenni dell’amore, come è naturale che Benassi scriva Vietato abbandonarla, con quel piglio esoterico che divampa in affermazioni perentorie e con quel finale che ha davvero corde inusitate di senso e di musica:

 

“Ti metto una mano sul ventre

come a cercare una porta

una spirale al centro del fuoco

un utero rosso di porfido”.

 

Poi il ritratto impareggiabile di Matteo Bove che Luca Benassi riesce a darci con assoluta verità di accenti. Niente tergiversare, niente eufemismi, ma parola diretta, che sa ricreare la verità delle cose con assoluta fermezza, perché

 

“Per giudicare il fatto del dolore

Bisogna conoscere l’abbraccio

Il ferro riposto a difesa dei figli

L’amplesso rubato al bosco”.

 

Come si vede, storia, cronaca, antropologia, tradizione, vita vera e vissuta s’impastano e diventano un canto fermo  e appassionato, un consegnarsi alla tradizione per ravvivarla e arricchirla di nuovi sensi, di risvolti inediti. Perché il guado se si compie secondo le regole porta all’altra riva e ridà senso alle cose e al divenire: pag. 45:

 

“Tutto è silenzio attonito, linea precisa, architettura equazionale del mistero. E tu sei atto, comprensione, gesto, tu sei mammella di roccia, succo di ventre, transito aperto verso un utero dove un occhio cieco si spalanca alla verità, tu sei pendolo, lama di selce, scala celeste, trapezio di cielo ferocemente chiodato di stelle, tu sei architrave rosa del sacrificio, ventilabro d’aria, vibrante nel gesto del primo gradino, tu sei seme di uomo, uovo paziente di donna, tu sei il risucchio potente, drenaggio del sangue, idraulica misteriosa del sacrificio, tu sei sorgente, tu sei acqua”.

 

Non c’è qualcosa di profetico in questo errare serrato del poeta? Non c’è la divinità che detta e indica il senso nuovo dell’essere e del divenire? E tutto ciò nasce da drammi e tragedie che stanno alle spalle, da lutti e attese infinite, da traguardi abortiti che tuttavia ritornano ad essere pronti alla sfida.

Il libro crea anche molte atmosfere dense che bisogna attraversare per purificarci, per ritrovare la luce, e a ciò partecipano sia Tiziana Orrù che traduce alcuni testi in lingua sarda e sia Massimiliano Maddanu che offre le fotografie della copertina e del quarto di copertina.

Il libro, bisogna ricordarlo, ha vinto il “Premio don Lorenzo Milani” a Gioiosa Jonica probabilmente sia per la qualità del linguaggio sempre teso e nitido e sia, credo, per la drammaticità che vi corre come un fiume carsico alla ricerca di trovare l’approdo.

Luca Benassi non è poeta facile, e non sa edulcorare il senso delle cose. Le chiama con il loro nome, ne fa rimbalzare l’eco e trova sempre la maniera di dilatarle fino a congiungerle con la logica del quotidiano. È molto tentato da un surrealismo di tipo andaluso che gli permette di ritmare le emozioni con calore e sapore umanissimo, ma sta attento a misurare la sua sovrabbondanza e riesce a dire il tutto con quella dose certa di brivido che assegna alla parola il ruolo, perché no?, immaginifico del dire raffigurando:

 

“Per giudicare un taglio

bisogna conoscere le cicatrici della terra

l’albero mozzato, il grano estirpato

il campo rappreso nel recinto di pietra

il destino del servo, la moneta di latte

della montagna, il pane di ghiande.

 

Per condannare un uomo

bisogna conoscere il freddo

della sbarra, la spranga che nega al padre

ciò che io ho negato,

bisogna condannare i padri dei padri

indietro fino al filo di bronzo

colato ai piedi del pozzo”.

 

Vedete? Benassi è un poeta che sa il fatto suo, che è capace di guadare la neve addirittura nudo, senza paura di morire assiderato, perché la temperatura del suo cuore è alta, e il suo pensiero sa dosare e porgere con la dovuta cautela così che cuore e mente riescono a trovare la misura che occorre per trattare anche argomenti scabri con quel dono alto della pietas che viene da lontano, dalla tradizione familiare, innanzi tutto, e poi magari, se proprio vogliamo fare i letterati, da Publio Virgilio Marone.

 

 

Plinio Perilli  - Due viaggi della poesia nuova nella nuova poesia - dalla metafora al concreto dall’etica al lessico, dalla geografia esistenziale – effettuale – a quella emotiva; dall’arcano al futuro, e viceversa: nell’avventura poi ancora più spasmodica, sublime e rischiosa d’ogni ritorno

 

Una rapita disamina dell’ultimo, assai bel libro di Luca Benassi, Il guado della neve (Edizioni CFR, Piateda, Sondrio, pp. 64. Euro 10,00), mi consentirà di parlare della Sardegna come grande metafora concreta, gnomica e quasi ancora selvaggia… Testo fascinoso e arcano, inopinatamente quasi iniziatico – questa quarta raccolta lirica dell’autore di Nei Margini della Storia (2000), I Fasti del Grigio (2005), L’onore della polvere (2009), Di me diranno (2011), ed anche molti buoni saggi critici – ci insinua e poi ci spalanca un viaggio inopinabile, umbratile e assolato, cupo per gnosi ancestrale ma anche radioso in stupefazione, rifioriture eso-essoteriche, nelle plaghe eternamente erose e segrete, ventose e rocciose dell’Anima…

 

   Io e te siamo scesi per la via del carbone

   Zia Maria ci ha dato una capra bianca

   il latte di un giorno, Zia Maria

   ci ha dato una capra bianca

   il latte di un giorno, Zia Maria

   ci ha dato la via della grotta, il segreto dell’acqua.

   Prendi uno specchio, ragazza mia

   gettalo nel fiume, nell’acqua verde.

   Una luce scura, un bacio di tramonto

   questo serve al tuo occhio feroce

   come uno scatto di gatto selvatico

   acquattato al bordo della tristezza.

 

   I margini, il grigio, la polvereLa via del carbone, la via della grotta, una luce scura, l’occhio feroce… Luca Benassi prepara i suoi abili acuti in diminuendo, tempra la voce dal basso, dai calanchi baritonali – su su, sino ai fieri altopiani dell’ebbrezza tenorile, dell’acceso e invalso, iniziato e impennato impulso di canto:

 

   Ecco la luce.

   Luce di luce, frattura di segno, corpo che cede mole alla luce. Scrittura di onde, legno crudele, spento, geometrico nella forma del corpo che cede alla luce, armonioso come linea che cede alla torsione sotto la frusta della luce.

  

   Dove vai donna che chiudi l’occhio al vuoto nella luce che accende la schiera, l’angelo del pulviscolo, la spada, l’orbita vuota della pietra storpia…

 

   Così il libro accade, insinuandosi via via e poi esplodendo, impennandosi visionario come una ripetuta, sfiatata sequela, assolutamente moderna, quasi di nuove e rimbaudiane Illuminazioni… Cadenzata, ritmata (e bilanciata) tra le oasi fresche degli acuti ed i deserti o le calde ondulate dune dei recitativi…

   E questo, non solo perché Benassi (che nato a Roma nel ’76 non ha neppure quarant’anni!) si destreggia abilmente a liricizzare gnomica la prosa e mettere al contempo una quieta, paziente sordina di prosodìa alle sue stesse accensioni o perfino fibrillazioni liriche… La sua linea d’ombra non è quella di Conrad, romanzesca d’esotico e cruciale d’enigma, ma rimarca comunque il confine di un’indicibile, ostica stupefazione, sia poiètica che gnoseologica… Certo, la significazione è orografica, verificabile, esemplata – tanto per dire – tra le pareti rocciose, l’altopiano calcareo del Planu Supramonte, le manifestazione carsiche e i sottostanti rimboschimenti di Baunei e di un po’ tutta l’Ogliastra, tra sacri ulivi e il pascolo ovino, gradini intagliati, crateri vecchi e la voragine del Golgo o S’Isterru: immaginiamoci dunque questa sospensione anche visiva tra picchi dolomitici e forre profonde, creste su orizzonti amplissimi e la vastità deserta dove magari si staglia, a mezzacosta con vista sulla valle di Triei, il nuraghe Lopelìe, alto su uno spuntone roccioso… come un vero castello dell’inconscio, arcano e donchisciottesco!

   Gottfried Benn, del resto, espressionista inestinguibile – l’imperdonabile Benn, scriveva Cristiana Campo, “nella sua stola purpurea di confessore della forma”, “antecessore al punto da poter profetare dei più lontani cicli avvenire” – ne parlava come di un memento, di un viaggio o rito o fuga o strappo o stupro essenziali, per “La costruzione della personalità” (e vale per i popoli ma soprattutto per l’individuo!):

 

   “… Noi portiamo nella nostra anima i popoli primitivi, e quando la tarda ratio si allenta, nel sogno e nell’ebbrezza, essi affiorano con i loro riti, la loro mentalità prelogica, e dispensano un’ora di partecipazione mistica. Quando la sovrastruttura logica si dissolve, quando la corteccia, stanca dell’assalto delle forze prelunari, apre il confine eternamente conteso della coscienza, ecco allora che l’antico, l’inconscio appare nella magica trasmutazione e identificazione dell’Io, nella primitiva esperienza dell’essere dappertutto e in eterno.”…

 

   Ed è l’Ombra, sempre, che conduce e consiste, pesa e dà sollievo, conclama luce ma insieme sa fermarla, vagliarla… In molte cosmogonie – ora mi sovviene – le anime dei propri cari o comunque dei defunti nell’aldilà, venivano considerate ombre,così da poter rappresentare in maniera figurata la loro intangibilità… E la mancanza dell’ombra, nel caso fosse stata ad esempio venduta al diavolo, significa la perdita dell’anima… Vicente Aleixandre, poeta cui era caro l’ossimoro, la visionaria o cosmica “coincidentia oppositorum” (più surrealista che bruniana!), invocava e cantava l’Ombra del paradiso (e lo fece, attenzione, in un annus horribilis, per l’Europa ed il Mondo: il 1944)…

   Bene, anche Benassi conclama e forse adotterebbe volentieri tutti gli ossimori ed i lirici titoli, strappi del bravo poeta spagnolo di Spade come labbra, La distruzione o l’amore, Passione della terra – infine Sombra del paraíso

 

   L’inganno è nella linea d’ombra: due occhi, un erma bifronte. Dire sì o no, alzarsi o cadere, vivere o morire, amare odiare. Due seni: uno secco, vizzo come una noce, l’altro pieno di latte, molle come polpa di pesca, un’amante puntuta di capezzolo come una freccia di luce. Un fianco coperto come una promessa d’amore, l’altro aperto come una ferita al suono dell’abbaglio. Come una vulva squassata dall’orgasmo.

 

   Chiosando sul titolo Il guado della neve, ha ragione Erminia Passannanti – in una prefazione che si prova a chiamare in causa tanti altri guadi o attraversamenti tra storia e natura, mito e arcano del ‘900, da Rebora a Pavese, da Ted Hughes a Seamus Heaney et cetera – a invocare e parlare di una poetica dell’attraversamento (passando dall’io psichico alla memoria corporale, ed entrambi annettendoli, risucchiandoli nel buio/luce della scrittura), “del portarsi oltre il varco d’acqua bassa, segna un tragitto disseminato d’immagini e simboli ad indicare i modi del passaggio ad un altrove dove l’io possa sentirsi finalmente libero e fondato.”

   Ed è vero che l’attraversamento “implica sempre un’interpellanza radicale, del tipo che ha contraddistinto, per intenderci, le poetiche più singolari del Novecento, italiano ed europeo.”…   

 

   In più c’è qui un viaggio nel viaggio, un avvento stesso lessicale, forse perfino un’inopinata ritualità, fascinazione tantrica, che è l’uso perfetto – infibrato in spirito – del dialetto, che si specchia e rispecchia appunto molte poesie di Luca nella traduzione in lingua sarda di Tiziana Orrù (testi revisionati a loro volta da Speranza Secci e Stefano Orrù)…

 

   Geo e tui in ce semus calaus in su caminu ‘e su carbone

   Sia Maria nos a dau una craba bianca


   su latte de una die, Sia Maria

   nos ad’ ingittau su caminu ‘e sa rutta

   s’abba cuada.

   Accaffa su spligu, figgia mia

   gettanceddu in s’erriu, in s’abba irde.  

 

   L’illuminazione (o l’acqua verde… s’abba irde…) che sempre Luca cerca e spesso ottiene, è – direbbe Rimbaud – come un adulto, ripercorso e cupo delirio d’“Infanzia”… Splendido infatti quel 5° movimento (delle Illuminations) con cui il fanciullo dalle suole di vento chiede ed esige una tomba mentale – stilistica – orografica – per poter finalmente restaurare, confessare e rimeritare in sé la luce, incontrare di poesia, con la poesia, un traspirante, temprato viaggio di “lune e comete, mari e favole”…

 

   Affittatemi finalmente questa tomba, imbiancata a calce con le linee del cemento in rilevo – lontanissimo sotto terra.

   Appoggio i gomiti al tavolo, la lampada rischiara vivamente questi giornali che sono così idiota da rileggere, questi libri senza interesse. –

   A una distanza enorme sopra questo salotto sotterraneo, si impiantano le case, si addensano le nebbie. Il fango è rosso o nero. Città mostruosa, notte senza fine!

   Meno in alto, si trovano fogne. Ai lati, nient’altro che lo spessore del globo. Forse voragini d’azzurro, pozzi di fuoco. È forse su questi piani che si incontrano lune e comete, mari e favole.

 

   E sotto terra va anche la parola e la feconda viandanza di Benassi, fra voragini d’azzurro e pozzi di fuoco, fango rosso o nero, mestruo o colore, della Terra Madre e Madre Terra, d’una Donna feconda fecondata di vita – d’una Donna amata che è insieme, e al contempo, dea e modella della stessa Arte che all’Amato Lei va ispirando…

 

   Un tempio di pietra con gradini di vento

   Camena, ti facciamo sulla collina.

   Scaviamo un pozzo, profondo quanto

   il ventre di una donna può contenere

   un’acqua muta, una sete dolce di vena

   una tana di volpe sotto il lentischio.

   Dicci la strada, curva su curva

   albero dopo albero lontano dal mare

   racconta il tornante, accendi

   un fuoco di mirto, una culla sospesa

   alla porta dell’ovile. 

 

   Donna che ed entra ed esce dalla terra come una statua dalla sua argilla, un corpo dall’altro mentre penetrati confricano, penetrandosi si plasmano d’amplessi – modellati, modulati si levigano, s’infebbrano nel godimento, nel piacere che è chinino, rimedio al dolore, alla malaria o jattura d’ogni evento, alla magarìa della Storia che brinda col sacro mirto a nuove imprese, ma poi ci uccide sempre promettendoci eroismi salvifici… gli eroismi mai premiati degli umili… l’eterno, disperante lutto del Bene:

 

   Ti diamo la prima buona notte nella terra:

   c’è una musa per questo, una stella incerta che buca

   la lapide pregando in una lingua senza scrittura.

   Mentre la sera chiude la faccia stralunata al mare

   il maestrale come un Salmo sgranato

   piega una terra fatta di sangue

   e che sangue chiede ai suoi figli

  

 

       Ti damus sa primmu bonanotte in sa terra

   in ce tened una musa po custu, una stella timerosa chi stampada

   sa pedra ‘e sa tumba pregando in d’una limba chena iscrittura.

   In s’ora chi su merie cungiada sa facce scumbessa a su mare

   su entu ‘e susu che un’orassione erreppìttia

   incurbada una terra fatta de sambene

   e chi sambene dimandad’ a us figgius.

  

 

   Alla fine, dopo tanto vento, e distanza, radici ritorte, miti ctonii o ipogei emotivi – rimane il futuro che sarà, rimane il Figlio, rimangono le parole, le poesie che saranno – e qui ritrovano, insieme, la desertica luna del cuore e il guado innevato del linguaggio, una transumanza inestimabile di emozioni, come armenti di sogni, greggi ancestrali, leggende di catarsi…  

 

   Facendo l’autostop ho visto i monti scrivere la parola casa come un gesto insano, un teatro santo e disperato per una nuova storia d’amore. Bisogna pensare alle curve, curve di curve come colpi di roncole su un ramo di pero, curve come un amore finito, dolce, biondo, duro come mandorle tostate, come torrone di montagna, come spine di ficodindia.

   Tre donne puntano i loro seni di calcare verso le torri dei nuraghe…

  

   Ma è il cuore, ora a Luca – e certo a noi tutti – che si fa nuraghe, muraglia di terra e pietra, congiunzione degli astri e dei rizomi del cielo, delle miniere degli dèi, di Vulcano fabbro dannato e glorioso, futuribile/preistorico, che in fucina batte il ferro d’incandescenza e forgia spade per le battaglie dell’umano, fra gli umani – sperando forse che mai le usino, ma loro le usano… Ecce Homo, ecco l’uomo sdivinato e pugnace d’immanenza, feroce e in pietas, mistico e spergiuro…

 

   “Nei testi di Matteo Boe ci sono condanna e dolore,” – chiosa lo stesso Benassi – “l’uomo feroce che è giusto rimanga in galera e l’uomo coraggioso, ci sono il rapitore e il padre al quale hanno ammazzato una figlia, il bandito e il comunista che pensa a un mondo più giusto. A me interessa questa irrisolvibile contraddizione che esprime la condizione e il sentimento di un’Isola, dilaniata tra la resistenza di un passato antichissimo e l’ingombro di un’incompiuta modernità:”…

 

   (Qui “Matteo Boe”, primula rossa del banditismo sardo, è il bandito ‘buono’, vorremmo dire ‘etico’, che riscatta il male col male: che subisce e dunque infierisce a rivalsa, a giustizia più aspra del dolore – santificata, affabulata, se non giustificata, d’asprezza)…

  

   Ecco l’uomo del coltello, i capelli neri bagnati

   d’uguaglianza nel taglio senza suono e rosso

   ecco l’uomo che cerca la luna travolta dalla pietra

   l’uomo del ricatto e della carne

   che intaglia nella bocca della notte

   nel sentiero di lama,

   una lingua di bimbo forestiero.

  

   Strepitosa l’immedesimazione in un paesaggio (idem per il linguaggio), che qui, l’abbiamo già fotografato, o meglio introiettato a simbolo, terrigno, psichico, emotivo, è quello dell’Ogliastra, in particolare di Baunei. “Per il suo isolamento, la sua storia e per le peculiarità del territorio e delle tradizioni,” – ci spiega in nota lo stesso Benassi, rifacendosi a un puntuale studio di Michele Calia – “il sardo baunese, pur presentando affinità con il campidanese e il lugudorese, costituisce un unicum linguistico, con caratteristiche fonetiche, grammaticali e lessicali non riscontrabili altrove nell’Isola.”…

 

   Dove sei inverno del cisto e dell’asfodelo

   ruga di vecchio bagnata di sangue

   sulla fronte bianca del supramonte

   dove sei uomo della fuga e dell’abbraccio

   che mi guardi dalle tue sbarre

   appallottolato al confine del rancore

   a fronteggiare la corte stellata

   dei ginepri.

 

   Rancore e ginepri, cisto, asfodelo, ricatto e carne, uguaglianza e pietra, notte, lama, luna e sangue… La sensualità è rapinosa e salvifica, dissennata e sacra:

 

   Bacia oro bacia nero bacia amaro

   bacia amore.

 

   Portami via sentiero del mare

   nel cavo dell’onda, portami

   nella bocca della Madonna

   stella, ciottolo di fiume

   petto di bagascia, portami via

   in un bacio di vento

   una bava bianca di grecale

   portami via amore mio.

   Portami via se ti vuoi salvare.

 

   E struggente è appunto questo ricorrere ogni momento all’ombra, ritualizzarla quasi, per romanzare, indicare, riportarci la luce – o viceversa:

 

   La luce si sgrana per un attimo, si arrotola in una macchia cieca, sbava come vomito, si sfilaccia in filamenti, chiazze di scuro; per un attimo l’ombra si fa ostile come un tacco di basalto, nero di paura, come un passu torrau, una traccia d’odio.

   L’ombra appallottolata all’ombra del corpo.

  

   Qui ovunque regna e vince la pietra – la pietra fra le pietre, in un regno di “tramonto violetto” e “denti sul cuore”, l’impero e l’imperio “dell’abbraccio cavo” a una deità che resta o si fa selce, basalto, ardesia, minerale che non fiorisce che silenzio, non s’ingemma che di solitudine… E s’ubriaca come Noè, nudo e infoiato con le sue vergogne, al cospetto di Dio:

 

   Mi chiedi del mare

   del filo di bisso, dell’abbraccio cavo

   del sole all’ultima pietra.

   Ero solo, ti dico, su una sedia

   ad ubriacarmi al cospetto di Dio.   

 

   Ovunque regna e comanda il vento – un Eolo di salmastro e desolazione, selvatica irruenza ma anche nobile, sorvolante equidistanza fra giustizia e ignominia, sotto l’occhio preciso del falcoUn occhio di cenere e acqua, chiaro come bianco d’uovo, duro come la pietra, feroce come la vendetta nello scatto dell’otturatore.

 

   Questo è il vento del valico che ingravida le donne del villaggio di uno stesso seme impotente, maligno di tristezza, racconta le storie del mare, scava il granito in forma di tomba. Un vento pieno di luce che inchioda due grembi incollati allo stesso destino.

   Questo è il vento del mare rosso porfido, che abbarbaglia l’azzurro netto del ricordo, arruffa le penne ai gabbiani, scarnifica gli scogli, raccoglie i pezzi di un’infanzia liscia come una vela bianca tesa oltre l’orlo di Dio.

 

   Oltre l’orlo di DioIl corpo schiacciato dal tema di Dio

   Quante volte ricorre Dio! – si ricorre a Dio, in questi versi che s’inventerebbero un messale anche per chi non crede…

   Alla fine tutto il libro si fa messa e rito creaturale, lauda interminata come nel latino sconsacrato (riformato? eretico? cioè più degno e inverato al Bene…) di uno strano vernacolo che, come Francesco, torna nudo alla terra, ci cammina pellegrino di ciottoli, confratello minorita o sorella inginocchiati, umiliati nella clausura spalancata d’ogni stella e Bellezza…

 

   O Dio onnipotente del vuoto

   fa che sia quel volto

   e non la parola

   a darci la luce.

 

   Vige, pulsa e s’impausa come una commozione profonda, ancestrale e immemore che nella pietra meglio scava le radici o le ali dell’Altissimo onnipotente del vuoto!, poi le immerge nei fiumi sotterranei della Grazia, nei porti sconosciuti e quotidiani della misericordia: – come antichi scultori primitivi, o pittori di medievali polittici devozionali… Che immergono i loro colori, le terre rosse o bruciate dei loro quadri, la santità anelata delle loro tavole, la porosità luminosa, intonacata degli affreschi nell’alveo d’una Fede paziente, bruciata come pelle dal vento alto e dal freddo sano:

 

   Ho portato mia moglie al fiume

   alla codula di luna, al Margine

   l’ho portata al Supramonte

   oltre la miniera del rame

   lei che non sa di questo sangue

   della gioia consumata nel

   vento di grecale.

  

   Rito e preghiera, laica non perché esclude Dio ma anzi lo ricomprende nel suo orizzonte terrigno, nella pulsione d’Eros che è essa stessa dono divino, e promessa terrestre d’amore… Dove inoltre ogni donna si fa Madonna, ogni maternità un’auratica ripetizione, buia ma celestiale, dell’insondabile mistero di questa nascita, divina e umana al contempo, travaglio e dogma, vergine, dischiusa fecondità dei figli tutti dell’Umano:

 

   L’ho guardata negli occhi

   nei seni e il grembo che portò mio figlio

   le ho guardato le mani di lentisco

   la radice ritorta, aggrappata alla pietra

   del noi, al tempio del ventre

   nero di sole, molle di vita.

 

   Un futuro primitivo che qui ritorna, cupo e splendente come un gran quadro o affresco arcaicizzante di Sironi, tra mito dell’antico e riduzione geometrica di vigorose forme plastiche: un’emozione straniata e monumentale, un’architettura aggrumata e abbruciata dell’arcano

 

   Conosco quel suo passo lento

   piegato di lato, come a scoprire

   la verità dei ciottoli, a tenere

   un tempo, un’essenza di pianto.

 

   Ma anche la gioia dilagante e liberata del “Ballo tondo”, Su ballu tundu (che non a caso ci ricorda il dono fiero e la pasionaria scelta lorchiana del cante jondo, cioè il canto zingaresco della Spagna meridionale, della sua angustiata, tiranneggiata, ma sempre fertile e danzante terra andalusa)…

 

   Si è avvicinata al fiume

   all’acqua verde che non conosce la storia

   quando entri nudo in quello specchio

   che mi rimanda un tempo senza

   lei, di lama e corallo,

   di mestruo senza dolore

   di piacere rosso.

 

 

   Tutto è linea di luce, ma dà gloria all’ombra.

   Tutto insegue il piacere che, a sua volta, perennemente è annichilito, inseguito dai regni del dolore… dalle gesta

   Tutto è straniero eppure tutto ci chiama all’abbraccio.

   Addirittura alla danza, al “Lanusei blues”… all’ebbrezza del cuore, del corpo che s’ingloria tra profumi e fortori, la furia del vento e il fischio dei balentes, femminei orgasmi, spasimi d’amore e il suono di launeddas:

 

   (aspettami al distributore amore mio)

   – così dicevi nella furia del vento –

   aspettami tra il fischio dei balentes

   e gli occhi duri delle donne

   aspettami a lungo amore mio

   lungo come il suono di launeddas)

 

   dammi la bocca, la tua montagna profumata

   di peli croccanti, dammi un pane di grano duro

   un ventre di capra, dammi il suono

   l’odore del maglione che assorbe

   il maestrale di settembre   

 

   Come un rito lustrale, sacrificale ma anabattista.

   La parola ribattezza il linguaggio, ogni bacio il suo amore, ogni sguardo o sorso di mirto la Natura da cui viene in essenza, a cui torna in presenza… Pozzo, acqua e sorgente…

 

   Tutto è silenzio attonito, linea precisa, architettura equinoziale del mistero. E tu sei atto, comprensione, gesto, tu sei mammella di roccia, succo di ventre, transito aperto verso un utero dove un occhio cieco si spalanca alla verità, tu sei pendolo, lama di selce, scala celeste, trapezio di cielo ferocemente chiodato di stelle, tu sei architrave rosa del sacrificio, ventilabro d’aria, vibrante nel gesto del primo gradino, tu sei seme di uomo, uovo paziente di donna, tu sei il risucchio potente, drenaggio del sangue, idraulica misteriosa del sacrificio, tu sei sorgente, tu sei acqua.

 

   Ma straniero non è il luogo, il territorio, o il linguaggio, o l’Altro da Sé… Straniero è il nostro cuore, è il tempo che ci resta e da cui veniamo, se non lo proclamiamo e destiniamo ad essere solo, comunque e ovunque, il tempo e il luogo e il canto dell’Amore:

 

   Straniero nella terra dell’abbandono

   in queste mura bianche

   della casa dei nonni

   straniero su di un letto d’alghe

   sotto la torre presa dalla luna

   nel letto, davanti alla piazza.

 

   Salivamo la sera, salivamo alla memoria…

 

   Salire alla memoria è risalire all’Amore, salirgli a casa – farne, anzi, la propria casa e scelta. Salire alla memoria per sposarla, straniera sempre ma d’amore non più: accoppiarla al futuro verso cui andiamo, che conteniamo.   

 

   È donna – semplice dea, ninfa di cielo in terra – o innologica Madonna materna, Madonna nera (d’oro e amaro amore), maternità dello spirito che trova sempre nella poesia il suo nuovo evangelio?…

 

   Bacia oro bacia nero bacia amaro

   bacia amore.  

 

   Basa oro basa nieddu basa coro

   basa amore.

 

   Se una donna, quella donna, ogni donna gli era straniera, o straniera poteva sentirsi, ora non lo è più: il futuro, la fecondata sua fecondità la sposa, l’incorona sua semplice compagna, consorte della vita, consorte finché ogni morte non rifiorisca in lauda e lode di rinascita…

 

   Ti ho portato qui, straniera

   nella terra dell’abbandono

   al fiume, alla codula di luna

   e tu sei femmina

   sei acqua di vena, sei

   fiore selvaggio, vento di maestrale.

 

   Come se Ulisse ritrovasse a ogni pagina la sua Penelope (e dimenticasse Circe, Calipso, Nausicaa fanciulla con le amiche), ora più del passato è il futuro che li lega, il talamo riconosciuto, annodato al tronco, all’ulivo del linguaggio, e loro figlio che come un Telemaco rinnovato non debba più cercare per mare e per terra il padre o i padri, proteggere da ogni insidia la madre, concupita dai pretendenti d’un regno che mai fu il loro, mentre loro sono, e saranno, le gesta goffe o iraconde di una nuova piccola, maldestra Iliade che non per loro fu scritta, né combattuta:

 

   Per condannare un uomo

   bisogna conoscere il freddo

   della sbarra, la spranga che nega al padre

   ciò che io ho negato,

   bisogna condannare i padri dei padri

   indietro fino al filo di bronzo

   colato ai piedi del pozzo.

 

   Straniero e Straniera si ritrovano mai così amati, riamati e amanti, ma così consci del loro dovere e diritto d’amore, d’essere, finalmente e per sempre, genitori felici:

 

   Ti metto una mano sul ventre

   come a cercare una porta

   una spirale al centro del fuoco

   un utero rosso di porfido.

 

   Tu sei lì, regina del bianco

   Signora del mare.

 

   Ci guarda nostro figlio

   vietato abbandonarla, sussurra.

          

   Abbandonare cosa? La vita? La madre? La porta, la casa, la poesia?… La poesia/odissea, che ci è sempre, insieme, sposa, madre, modella e dea dell’Arte che la ritrae… Madonna inconsapevole, Assunta d’umiltà… Luca Benassi per questo rito e auspicio, non meno ancestrale che liturgico, traduce, adduce, come in suffragio della gioia, forse la più bella e antica preghiera sarda, il Deus ti salvet, Maria

 

   Deus ti salvet, Maria,

   chi ses de gratia plena.

   De gratias ses sa vena

   ei sa currente.

 

   Dio ti salvi, Maria

   che sei piena di grazia

   acqua di vena di tutte le grazie.

 

   Ed avvicina al cielo cantarla coi canti del contado, i nostri italici spirituals, le nenie da fatica, il gloria della domenica che scampana nei cuori la certezza della speranza, il sorriso sbarazzino d’un’umile adolescente Ave Maria, piccolo infinito segno di croce dal fonte della currente della Storia, l’acqua benedetta che forse scorre solo da quel costato ingiuriato, trafitto perché divino; e sola e sacra battezza, disseta l’anima:

 

   Beneitta e laudada,

   subra a tottu glorioso.

   Mama, fiza e isposa

   de su Segnore.

 

   Benedetta e lodata

   sopra tutto gloriosa

   sei mamma, figlia e sposa del Signore.

 



Giorgio Linguaglossa su Il guado della neve CFR, Piateda, 2013
in http://www.milanocosa.it/recensioni-e-segnalazioni/benassi-il-guado-della-neve

In quest'ultimo libro Luca Benassi giunge quasi a mettere in discussione le acquisizioni stilistiche che aveva raggiunto nei precedenti: Nei Margini della Storia (2000), I Fasti del Grigio (2005), L'onore della polvere (2009), Di me diranno (2011). In quest'ultima lezione, la fascinazione della modernità tende a rinnovare il genere. Forse sono i germi della crisi del genere poesia che qui si avvertono con maggiore nitore. La letteratura non è e non è stata un valore corrente in ogni età della storia; al contrario, sono esistiti periodi, anche assai lunghi, durante i quali la scrittura si è ridotta a umili funzioni di servizio: pensando alle vicende italiane, basti ricordare per tutti, la millenaria stagione medievale nella quale, forse con il sostegno di un cristianesimo penitenziale, certamente un po’ iconoclasta e in ogni caso poco attratto dalla conturbante seduzione del bello, della poesia e anche del racconto è difficile trovare tracce significative per molti secoli tra la donazione di Costantino e l’affermarsi dei primi testi poetici in volgare. La svolta decisiva la segnò la Commedia di Dante inglobando nella forma poesia il genere narrativo, ma per un seguito di ragioni storiche che qui non è il caso di indicare, da quell'opera romanzo e poesia si sono divise per sempre, fino ad arrivare ad oggi alle soglie del Dopo il Moderno, dove la poesia si pone come testo di un avantesto o testo di un metatesto sul testo (come in Zanzotto); quella funzione poetica che tendeva a convogliare tutti i segni sul messaggio di cui era portatrice la poesia sembra oggi essersi dispersa in una miriade di diramazioni laterali e minoritarie. Così è avvenuto che non c'è più un paradigma al quale ragguagliare l'opera poetica, non c'è più un Canone con la maiuscola ma una serie di mini canoni sempre più minuscoli, ciascuno con il proprio pentagramma lessicale e tonale. Ecco spiegata la ragione del ritorno al duplice binario della poesia in Lingua e in Dialetto (sardo) come nel caso in esame, forse per quel bisogno di avere dei punti di riferimento stabili là dove non c'è più alcuna stabilità che la poesia possa darsi dall'interno o dall'esterno, perché sono venuti meno i punti di riferimento, e l'orientamento ne è stato sconvolto, e non c'è più una bussola che non sia impazzita. Il senso del titolo del libro: «il guado della neve», io lo interpreto così: nella difficoltà di aprirsi un «guado» stabile in una materia per eccellenza friabile come la «neve». Nella sezione dal titolo ossimorico «Il dovere dell'acqua» c'è la consapevolezza di trovarsi in «lame di fosfeni, feti di fotoni brillanti come fonemi, sintagmi interrotti, bagliori, scoppi, incistati, incurvati nelle trame del legno, intavolati, inchiodati al problema del vero»; sembra quasi di trovarsi nella caricatura di una certa poesia post-sperimentale del tardo Novecento.
Forse questo di Benassi è un libro d'amore, come può scriverlo un autore che voglia dissimularne le tracce; e il poeta è costretto a scrivere sull'acqua o ad aprirsi un guado nella neve. Se Cavalcanti e gli stilnovisti elaborano una laica teoria dell’amore, per secoli, nelle generazioni seguenti sarà più di tutti Francesco Petrarca a percorrere, «nano sulle spalle di quei giganti», il cammino a ritroso che, grazie al senno di poi, doveva invece condurre in avanti, costruendo i fondamenti di quella civiltà umanistica nella quale riuscirono a convivere, arricchendosi reciprocamente, la tradizione classica e quella cristiana.
Oggi il mondo moderno a tecnologia avanzata esclude a priori ogni autorità e magistero spirituale che non provengano da essa, e la poesia si vede quasi ridotta a prendere ad interlocutore un detenuto condannato all'ergastolo e ristretto nel carcere di Spoleto, o a inventarsi degli interlocutori surrogati, o finti, a prodursi nella zona di scocca tra un socioletto idiomatico sardo e un italiano tradotto da quel socioletto; e lo stile diventa il risultato di un rapporto, il risultato di un dialogo tra un socioletto e l'istituzione linguistica per eccellenza qual è il linguaggio poetico. Dal punto di vista fonetico e lessicale, nelle parti in versi, la poesia di Benassi riceve sicuramente uno stimolo da questa contaminazione a distanza, ma rimane pur sempre all'interno della dialettica tra conservazione e innovazione di novecentesca memoria, non può sfuggire alla dialettica che il Novecento ha inaugurato con le avanguardie storiche.
Siamo certo tutti figli del Novecento, il secolo che ha espiantato la poesia dal corpo umano quale organo inutile, un po' come si faceva un tempo quando i chirurghi espiantavano le tonsille ai bambini. Ma è un espianto che ha delle conseguenze non, propriamente, tutte positive, o che comunque porteranno dei risultati che soltanto il futuro potrà giudicare.



Manuel Cohen su Di me diranno e Il guado della neve.
Punto 3 Almanacco della poesia italiana (puntoacapo editrice, 2013, pagg. 17 e 18)

C’è un sottile doppio filo, una coordinata tenace, che tiene salde, come in una coerenza interna, le tre raccolte precedenti (Nei Margini della Storia, 2000; I Fasti del Grigio, 2005; L’onore della polvere, 2009) e i due nuovi lavori di Luca Benassi, nato a Roma nel 1976, città in cui vive, e in cui si occupa, tra l’altro, di letteratura, infaticabilmente recensendo e presentando libri, curando rassegne e letture, e destinando parte considerevole della sua sollecitudine militante a generosa a tantissimi autori che spesso non possiedono ‘grandi pacchetti’ di lettori forti e curiosi. Un filo, dicevo. Rintracciabile già ad altezza dei titoli, veri enunciati programmatici del testo, spie di significazione: si tratta di enunciati a forte pregnanza metaforica, che marcano campi semantici - siamo nei domini dell’analogia - e che rinviano ad una dimensione alta, meglio, ad un vero e proprio Ethos. Anche la quarta raccolta di versi è fedele a questo dato: Il guado della neve. Che siamo al cospetto di una scrittura connotata di eticità, e avvertibile dalla lingua medesima, dalla tonalità: che è sobria, austera, ma decisamente alta, tesa a un filo. Lo spazio e l’orizzonte del verso, e delle storie a cui rinvia, è uno spazio fisico concretissimo, di naturale ostilità o asprezza, che rinvia idealmente alle alture del Golan, agli altipiani del Sinài, di una natura arcaica e severa, non dissimili da quelli, più a portata di sguardo, della Sardegna. Qui, dove una “lingua di pietra” (il ballo tondo, p.22) invita alla lallazione di un antichissimo rito, un ballo o motivo accennato da un refrain (in anafora) fortemente accentato, dattilico quasi: “Bacia oro bacia nero bacia amaro / bacia amore”, incantatore e dionisiaco, qui, dunque, Il guado della neve si apre classicamente con l’invocazione alla Musa: “Dicci la strada, curva su curva / albero dopo albero lontano dal mare / racconta il tornante, accendi / un fuoco di mirto” (p.20). Come suggerisce Erminia Passannanti nel suo acuminato intervento, il titolo rinvia (oltre la metafora, e ancor più polisemicamente) ad una delle probabili etimologie del paese di Baunei (Olgiastra): Bau ‘e Nie. Ho accennato a scenari mediorientali e a paesaggi isolani, sardi: coincidenti e portatori insieme di un respiro veterotestamentario e un impeto pagano. Sono il doppio filo di significazione e orientamento di cui scrivevo all’inizio: quasi una sovrapponibile doppia cultura di riferimento. E la lingua, come il paesaggio, è arcaicamente ‘petrosa’ e salmodiante, colma di implicazioni paniche (etnografiche e proprie di una phonè o cultura millenaria e orale) ed ontologiche, anche quando il verso si presenta più disteso e dilatato, o incline ad una confidenzialità o franchezza nei toni: “Ti diamo la prima buona notte della terra: / c’è una musa per questo, una stella incerta che buca / la lapide pregando in una lingua senza scrittura. / Mentre la sera chiude la faccia stralunata al mare / il maestrale come un salmo sgranato / piega una terra fatta di sangue” (p.30) Dove appare strategico l’uso dell’avverbio ‘mentre’ a demarcare un confine (forse una distanza) tra un noi fisico ed una natura (naturans, viene da dirla, non governabile) lei, così fortemente decisiva). Il libro poi, splendido nella sua completezza di sguardo, riserva, nella sezione eponima, sorprese ulteriori: il lettore si ritrova al cospetto di due suite o poemetti in prosa, che della prosa hanno la lunghezza, mentre nella durata si coglie la bellezza di veri e propri prosimetri: “Questo è il vento del fuoco, un guizzo rosso senza sorriso oltre il filo spinato, una maschera nera che danza in tondo a carnevale, un’orbita vuota incisa nel legno, vestita di dolore, una carne arrostita nei giorni di festa.”(p.43). Prosimetri che marcano pure Di me diranno, una bellissima plaquette che raduna sette (un numero caro alla Cabala) prose poetiche, o simil-prose, o quasi-prose. Anche qui riferimenti sacroscritturali: si tratta di brevi aneddoti, storie accoglienti da narrazione per bimbi (e per adulti), i cui titoli rinviano chiaramente ai Vangeli: Il bue, il fico, il gallo, la croce… Sono splendide parabole sulla significazione della vita e del dolore, dell’offerta e del dono, in una lingua elementare e potente, che in autonomia riusa e riattiva simboli e senso (e sensi, in una fisicità mai sconfessata) efficaci per felicità di sintesi e profondità di sguardo.



Annamaria Ferramosca
Note universali dalla sarditudine. Studio di A. Ferramosca su il guado della neve di Luca Benassi

Insolita raccolta poetica, questa di Luca Benassi, poeta romano di ascendenze sarde, che assimila ed elabora in poesia quella indefinibile sarditudine, mix di cultura millenaria, lingua, mito, natura, per restituirla – comprendendovi anche le ombre di un recente passato – con le vibrazioni e l’efficacia incisiva della poesia.
Un guado che richiede di essere attraversato con estrema attenzione, fin dalle epigrafi; in genere trascurate, le epigrafi sono invece sempre segnali rivelatori di senso, anche quando scelte dall’autore inconsciamente. E qui il senso è nello straordinario legame delle tre citazioni con le precedenti raccolte poetiche dell’autore, con le loro sottili allusioni ai fuochi tematici del proprio percorso.
Nella prima epigrafe infatti, tratta dall’Aiace di Sofocle, che peraltro rimanda alla classicità, all’equilibrio versus la sua perdita nel nostro mondo che vacilla, vi è l’eterno richiamo al mito, che nella raccolta I fasti del grigio, 2005, si mescolava al quotidiano, con le visioni di un assedio di Troia contrapposto all’assedio-dolore personale e universale. Tema comune anche al libro L’onore della polvere, 2009. E in quel “Tu mi assilli, donna” già appare l’indicazione della centralità del femminile con cui confrontarsi, e nel secondo verso si allude all’artificiosità di una teologia irraggiungibile, da cui prendere le distanze per riportarsi ai valori sacri della fisicità e della terra, temi, questi comuni ad entrambi i libri.
E la seconda epigrafe, con i quattro versetti di Giobbe, è richiamo evidente alla plaquette Di me diranno, 2011, alla demistificazione di un’edulcorata teologia del Natale, con l’invito a misurare le giuste dimensioni di una terra davvero umana, fatta di dolore, corpi, fisicità, per poter accedere con verità alla rinascita.
Infine la terza citazione è un fulminante proverbio sardo, il cui senso è la constatazione di vivere in una società ingiusta, che dunque apre alle atmosfere di questo Guado della neve, che accoglie tutti questi temi e li addensa di nuove suggestioni. Un micromondo di terra-anima che si fa specchio del macro, dove bellezza e malessere dilatano in note universali.
Già il titolo, che è anche quello della prima sezione del libro, indica un attraversamento e fa del nome di Baunei (che significa appunto guado della neve nella lingua di questo paese dell’Ogliastra) la metafora del cammino umano, di questa nostra vita con le sue fredde asperità così difficili da valicare nel rigore delle nostre solitudini, nella distanza frapposta tra le nostre isole interiori, dovunque ci troviamo, per generale egoismo, irresponsabilità, irresolutezza. È il guado che Benassi indica ad una umanità sopraffatta dall’errore, che affronta ostacoli e vortici cercando i varchi benevoli lungo la corrente e la discesa nel pozzo sacro della purificazione, in una simbologia che conduce al possibile ritorno a un equilibrio oggi in dissoluzione. E in questa tensione è centrale il richiamo al principio fondante del femminile, a quella Grande Madre arcaica che in questa terra – e non solo nell’archeologia – e nell’anima della gente sarda si avverte palpabile, come profilo di donna ancora parlante, essenza ancestrale ancora viva; un archetipo fortemente collegato con l’elemento acqua, che consente la vita, la guarisce, la salva.
Vi sono almeno tre livelli di lettura di questo libro, che corrispondono ad altrettanti intenti evidenti dell’autore, con note di indiscutibile novità.
Il primo intento, che si evidenzia fin dal primo testo e diviene tratto unificante della raccolta, è quello di voler immergere subito il lettore in un “paesaggio totale”, un paese-anima che è compenetrazione di terra e vita che vi scorre, fusione di pensieri e suoni, di scena e lingua; una lingua sentita come parte integrante, fisica, che da questa terra promana, come visione del mondo che questa terra produce, sua profonda anima.
Trovo in questa scelta un primo elemento di forte novità in poesia; la volontà di versare in lingua di Baunei gran parte di questi testi (tutti i testi della prima sezione, quasi metà dalla raccolta) che in terra d’Ogliastra sono nati o comunque da questi luoghi sono stati ispirati, è un voler evidenziare l’adesione estrema di chi scrive al genius loci, alla vita che qui scorre in luci e ombre e chiede di rappresentarsi nella sua più autentica verità. E concordo con la prefatrice Erminia Passannanti quando parla del ricorso alla traduzione in lingua di Baunei (nella bella versione di Tiziana Orrù), come un voler compiere un processo inverso a quello consueto della traduzione dalla lingua regionale verso quella nazionale, quasi a voler offrire un dono di poesia totalmente comprensibile alla piccola comunità di Baunei. Ma credo pure che l’autore abbia di sicuro percepito l’addensarsi di significato, l’aggiungersi di quel di più di verità alla scrittura, che conseguono al passaggio nella lingua viva del luogo che ha ispirato i testi.
Un altro intento, come si è visto già premesso in epigrafe e che attraversa tutte le sezioni, anche se con intensità e suggestioni diverse, è quello di voler far emergere in modo nuovo la figura femminile. Questa tensione connota Benassi come l’unico, forse, tra i poeti italiani che riflette in poesia sulla necessità di rifondare una visione della donna anche nell’immaginario poetico oltre che nella generale ben nota distorsione cognitiva e culturale sessista. In questo superamento di ogni preconcetto, che qui si dimostra compiutamente elaborato dal poeta e chiaro di consapevolezza, Benassi attinge anche alla memoria di un passato arcaico, così che un profilo femminile di grande libertà e potenza prende corpo attorno alle sorgenti e ai pozzi della purificazione, e la donna appare la insostituibile compagna lungo il guado, la Facilitatrice nella ricerca di senso.
Questa visione è evidente nella raccolta fin dal primo testo, che si apre come una stanza sacra dell’accoglienza di grande suggestione. Dove una ninfa Camena si catapulta dal pantheon romano in terra sarda, legandosi-identificandosi nella sacerdotessa che compie il rito dell’acqua presso il pozzo-tempio, uno dei tanti disseminati sull’isola, relitti prenuragici di una devozione alle acque sorgive legata al ciclo fertile della donna e della terra. E il lessico pure sceglie qui le note del femminile materno, ventre di donna, culla sospesa, sul fondale di una natura pànica in quella tana di volpe sotto un lentischio. Una forma che deflagra subito nel testo a fronte, nella suggestione sonora della lingua di Baunei.
Una donna che viene descritta nella sua mutevolezza, nella gioia liberatoria e liberante (l’uomo) ne Il ballo tondo, nella costrizione obbediente alla religione nell’ Ave Maria dell’acqua, poi nel destino di lutto nei testi successivi della prima sezione. Nella seconda sezione il pensiero continua vorticare intorno all’asse unificante del femminile-acqua, dove il dovere dell’elemento liquido, espresso già nel titolo della sezione, è quello di dare luce (di senso). È la preghiera di un nuovo Adamo, che chiede aiuto nella ricerca di senso a una vera Eva , che l’uomo sta imparando a riconoscere, a decrittare, a onorare.
Si noti pure come nel testo ogni lemma è investito di un ruolo semantico preciso, fortemente evocativo, come quel fuoco di mirto che, lontano dal rischio di manierismo di cui si parla in prefazione, sta nel verso con giustezza e grazia a richiamare il ritmo – astorico – dello scorrere di una vita pastorale in un tempo arcaico, nel lento fluire delle consuetudini quotidiane.
E nel successivo ballo tondo, che ricorda un’altra arcaica danza mediterranea, quella taranta affondata nei lontanissimi riti dionisiaci, emerge il parallelismo di comuni percorsi collettivi di liberazione, con la notazione aggiuntiva che qui si sta evocando una storia semiaffondata nella leggenda: un’invocazione ad attraversare insieme il guado fatta da un uomo innamorato ad una fantasmatica donna sarda rapita dai mori. Pur restando nell’ambito metaforico della ricerca di senso, la particolarità è proprio nell’augurio che questa donna, divenuta straniera d’africa per effetto del rapimento, possa salvare se stessa e con lei l’amante solo se riuscirà a portarlo con sé nella sua nuova terra-letto di palme. Sembra che il canto voglia qui adombrare un possibile salvifico incontro tra culture, capace di portare entrambe alla originaria innocenza . Colpisce l’energia trasfigurante che questo testo opera sulla figura femminile, che qui appare come un ibrido di misteriosa vitalità, sospeso tra l’essenza divina di una madonna e quella terrestre, libera e sovversiva, di una baccante. E non sfugge a Benassi come l’energia liberatoria insita nella consuetudine della danza e del canto sia stata poi nella storia imbrigliata negli schemi della tradizione cattolica, evento sottolineato nel successivo canto, Ave Maria dell’acqua, questa volta in lingua originale, tradotto dal poeta in italiano. Un’operazione, credo, di chiarezza socio-antropologica, fatta con gli stilemi e gli esiti della poesia. La preghiera diviene nei testi successivi presa d’atto di una realtà sociale amara, con il ritorno ad una visione di lutto, una giovane uccisa, la processione, l’inumazione, un destino collettivo intriso di sangue, colto nella sua ineluttabilità. E il testo con dedica a Mario O. ha infatti proprio il profilo di un compianto, di un rito di sepoltura che rievoca la solennità dei rituali arcaici a cielo aperto della necropoli di Montessu, alta, affacciata sul mare, per alcune espressioni descrittive: mentre la sera chiude la faccia stralunata / al mare e pure: in una lingua senza scrittura, dove il rito non scritto era l’incisione nella pietra dei simboli della spirale eterna, dei denti di lupo a far da guardia alle tombe.
Segue, in Non c’è paura da queste parti, una scena-preludio di tragedia (sviluppata poi nell’ultima sezione), che descrive con grande incisività l’incubare sordo della decisione sciagurata di effettuare un sequestro, compreso il macabro taglio dell’orecchio. Una regia sapiente della parola fa qui emergere tutta la tristezza di questa ferita incomprensibile, un’ impotenza collettiva che si fa mutismo attonito eppure complice.E la paura che rende inerte la collettività viene fissata, nella mitopoiesi del poeta, in una scena tragica immobile, astorica, sospesa nel suo senso di scuro destino.
Il cammino prosegue poi verso il guado, tenendo per mano un’orfana – scegliendo il poeta una donna ancora come medium di senso – nel rito di gettare in acqua lo specchio del dolore. Ancora una volta l’acqua che salva, la limpidezza da bere per continuare a vivere, ma con la guardia da tenere alta, quella di un gatto selvatico pronto allo scatto. Stile e contenuto, forma e immaginario appaiono in questa scrittura strettamente legati, si intrecciano e fertilizzano a vicenda, producendo nuove visioni, inaspettate soluzioni.
Un altro tratto di novità di questa scrittura è infatti nella ricerca stilistica, che sempre continua all’interno di un artigianato già maturo della parola, ma evidentemente, come in ogni umile-grande- autore, mai sazio di sperimentarsi. In questa raccolta Benassi decide dunque di accostare la vena lirica alta, ma non tanto da non essere amata (cifra che già conosciamo dalle precedenti raccolte), a brani di prosa poetica, o meglio poesia in prosa, alla ricerca di un nuovo dettato melodico-ritmico. E la sua scrittura orizzontale appare spesso paradossalmente più incandescente e rarefatta di quella in versi, conservandone il canto, e rivelando una forza affabulatrice e straniante che la rende densa trascinatrice di senso. Tutta la seconda sezione Il dovere dell’acqua è scritta in prosa poetica. Ne riporto uno dei brani più intensi, da Il pozzo,V:
Questo è il vento del valico che ingravida le donne del villaggio di uno stesso seme impotente, maligno di tristezza, racconta le storie del mare, scava il granito in forma di tomba. Un vento pieno di luce che inchioda due grembi incollati allo stesso destino.
Questo è il vento del mare rosso di porfido, che abbarbaglia l’azzurro netto del ricordo, arruffa le penne ai gabbiani, scarnifica gli scogli, raccoglie i pezzi di un’infanzia liscia come una vela bianca tesa oltre l’orlo di Dio.
Sai cos’è che ci accomuna? Il profilo dei monti lontani affilati come denti di lupo.
Questo passaggio improvviso dalla pagina in versi a quella in prosa si configura come uno iato formale e dialettico, un voler sparigliare un ordine, mostrando la propria refrattarietà a qualsiasi imposizione di compattezza, obbedendo solo al proprio imperativo di affidarsi alla percezione. Impossibile qui non ricordare William Blake con la sua celebre frase: “Quando le porte della percezione sono spalancate, le cose appaiono come veramente sono: infinite”. Luca Benassi crea dunque un suo originale linguaggio dell’interiorità con cui riesce ad accendere l’immaginario e a fissare il dolore del tempo e lo fa con questo registro mobile verticale-orizzontale che traduce al meglio sia la dimensione sacrale che l’urto con la pura percezione e quello con la realtà. E questa sezione, centrale nel libro, rappresenta una rottura ma insieme anche un ponte concettuale tra la prima e l’ultima parte della raccolta.
In particolare la prima parte della sezione, Linea di luce, tutta giocata sulle suggestioni provocate da una foto d’arte di Valeria Floris, è “poesia in prosa” di grande freschezza espressiva, pura percezione versata in una scrittura febbrile di immagini, incandescente, quasi onirica, ma colma di senso. Brani visionari che hanno note di barocco, nel senso positivo di vitalità materica del barocco, dove si accampano e dominano immagini di luce sesso fuoco corpo brace acqua, mistero di donna fatta d’anima e insieme erma bifronte.
Colpiscono le iterazioni lessicali del crepitare e delle varianti espressive della luce o freccia di luce e infine, quella chiusa memorabile, con la preghiera che sia finalmente solo la fisicità, quella dei corpi al pari di quella dell’arte, entrambe capaci di governare la luce, e non qualunque logos, qualunque razionale parola, a darci l’ultimo senso.
Nella seconda parte Il Pozzo il guado si avvicina, si giunge al pozzo-tempio e in questa dimensione senza tempo emergono profili di donne che si muovono e parlano come sibille, nel fecondo linguaggio degli archetipi femminili: il pozzo-ventre, il dolore, l’offerta, il piacere, il pianto di bambino. Si rivolgono ad un uomo che ammutolisce, in preda a stupore. Ma ancora un altro sapiente scarto poetico sbalza improvvisamente il lettore in una dimensione di realtà che si consuma sull’asfalto, uno scontro mortale. Ancora un lutto, ancora il vento che soffia sulla sepoltura, ancora un ossimorico accavallarsi di metafore sulla finitudine e sul ciclo vitale perenne che si rinnova nel rito della sorgente: E già una donna si spoglia / per scendere nel pozzo. Ancora la Madre, la terra-corpo con la sua simbologia cosmica e teogonica. La forza unitaria di questo Guado nella neve promana da una visione di naturalità che si fonde con l’angoscia interiore e con il malessere di una società in declino. Benassi scava il suo percorso poetico laddove pullula un’acqua che continua a parlare di limpidezza, al termine di un viaggio carsico attraverso l’oscurità dell’errore, cercando di ricomporre, o almeno di indicare una direzione di ricomposizione. Appaiono assimilate le parole del poeta slavo Danilo Kis che definiva il poeta colui che di fronte al caos del mondo tende a rinsaldarne l’unità originaria.
Nella terza sezione Su logu su contu, di soli tre testi, Benassi ritorna alla poesia in versi raggiungendo il punto più alto dell’accensione lirica, quella capacità di spaesamento capace di trascinare il lettore in un territorio altro-alto. Nel primo testo si descrive un momento di pura contemplazione, quasi una trance per invasione del sacro. Lanusei blues è un umanissimo cantico d’amore, che ricorda quello biblico, pieno, vivo, di una carnalità che veste i simboli sacri – spirali – lunule – denti di lupo – della Grande Madre. E dove, nella chiusa, ritorna quel soffio di thanatos che sempre è in agguato sull’eros facendo balenare la sua ultima parola, in quegli uomini appostati in piazza come sacchi bucati di tristezza.
Vietato abbandonarla è il testo-consegna, con il suo monito etico di un uomo consapevole agli altri uomini. La poesia, che si apre con una scena di connubio dove terra-case-mare-luna sono fuse in una dimensione cosmica, mostra la sposa-madre che cammina a fianco del poeta come figura profondamente sacrale, pur straniera rispetto al paesaggio. E questa dimensione di sospensione è rotta a un tratto da un grido che emerge potente e necessario, questa volta direttamente dalla sfera razionale, sebbene messo sulle labbra del figlio come un sussurro: vietato abbandonarla. Un verso-gesto di grande valore etico oltre che estetico, che riguarda il femminile e riscatta in pieno il maschile.
Il tema dell’ultima sezione, Matteo Boe, che sembrerebbe di chiusura, in realtà si prepara e sembra pulsare in molte delle pagine precedenti. È qui una posizione dell’autore, di riflessione-denuncia del fenomeno del banditismo (oggi si spera ormai estinto), che testimonia un confronto – raro – della poesia con la storia, senza cedere alla retorica del grido civile: Per giudicare un taglio / bisogna conoscere le cicatrici della terra / l’albero mozzato, il grano estirpato / -il campo rappreso nel recinto di pietra /il destino del servo, la moneta di latte / della montagna, il pane di ghiande.
La tragedia è percepita come deriva dell’abbandono sociale, ma senza alcuna giustificazione di colpe e crudeltà inammissibili. È l’ultimo atto intenso di questa poesia che si fa scena del mondo, capace di trasmettere una sorta di autobiografia del bandito di Lula come fosse scritta di suo pugno (sappiamo dall’autore di una fiammeggiante corrispondenza intercorsa tra lui e Boe), da cui emerge una specie di pietas, una simpatia – nel senso etimologico di sun-pathos, un soffrire insieme – che accoglie il pentimento, quasi in una sospensione di giudizio. È una scrittura accorata, tra disperazione per una vita vista come destino senza varchi di salvezza e assunzione di ogni responsabilità personale, ma anche richiamo alla responsabilità collettiva di una società che trascura e abbandona, permettendo la crescita dell’humus da cui nasce l’errore. Come ancora oggi si vede accadere nel mondo, per violenze e stragi lasciate irresponsabilmente incubare nel tempo, senza prevenire, senza vigilare .
Resta dunque l’intensa indicazione di valore universale che Luca Benassi lancia in questo suo guado di poesia: una visione di grande spessore intuitivo ed etico tra passato e presente, tra simbolico e reale, tra scuri destini e chiari possibili orizzonti per uomini responsabili. Una ricerca poetica rigorosa, autonoma, di sicuro non epigonica, che indica un paradigma per la nuova poesia dei prossimi anni.
  

Rosa Salvia su il guado della neve

L’originalità di questa nuova raccolta poetica di Luca Benassi, vincitore peraltro del Premio letterario Don Lorenzo Milani – anno 2012, sta soprattutto in una poesia dove l’originaria elementarità del mondo che narra: “la Sardegna”, col proposito di denuncia congiunto all’intento commemorativo di eventi tragici , riesce a pervenire a una capacità espressiva che fa della nudità della parola, come talora di un intenso linguaggio figurato, caratteri essenziali.
Interessante è anche la riscoperta di un’ Isola dove l’avventura può essere vissuta negli aspetti familiari del quotidiano; personaggi e situazioni che restano impressi nella memoria: momenti di una stagione della vita espressi con forza e dolcezza insieme.
Se anche Benassi si lascia accarezzare dall’idea e dal piacere vitale del canto, riesce quasi sempre a distogliersi dalla sua malìa, per scegliere la strada di una musica dissonante e impervia, introducendo nei suoi percorsi anche scarti prosastici capaci di sorprendere il lettore. Riesce in altre parole a passare dalla levigatezza del canto, al tratto ruvido di una superficie testuale che rivela in questi suoi modi il disagio (nell’autenticità) della realtà di cui scrive. Con un possibile accostamento al poeta lucano Rocco Scotellaro, la poesia di Benassi si esprime nella forte fisicità delle immagini, nella concretezza e nel colore dei versi che riescono a trasformare in rappresentazione epica e mitico-religiosa un mondo schiacciato verso il basso e condannato a “un gioco di odio e sfortuna”. In più il poeta preferisce accogliere nei suoi versi il mistico silenzio sprigionato anche dai semplici elementi della realtà quotidiana, piuttosto che seguire il “frastuono” di una poesia gonfia di retorica.
Nella prima parte del libro, Il guado della neve appunto (una traduzione peraltro di una delle possibili etimologie del nome del paese di Baunei, “Ogliastra”) il dialetto sardo, da lingua della realtà diventa lingua della poesia. L’impulso espressivo dialettale si qualifica come imperiosa necessità interiore. Ne riporto alcuni versi nella versione italiana:
[…] E’ questa una buona notte, una stretta di mano / una processione del silenzio che mai / chiude l’orbita vuota incisa nel granito. / Ti salutano i figli, i nipoti / quelli che ti hanno amato / l’estrema generazione. /

E ancora: […] gli uomini camminano / braccati dalla luna incinta di notte / affidano a un orecchio mozzato / un riscatto da chiedere / un lettera da scrivere ancora. /
Emerge la poetica del portarsi oltre il varco d’acqua bassa, del passaggio ad un altrove dove l’io possa sentirsi finalmente libero dai retaggi di una tradizione di condanne e misfatti. Inoltre, come scrive Erminia Passananti nella prefazione, Il guado della neve è una proposta di comunione elettiva tramite la partecipazione di altri artisti al volume come Speranza Secci, Stefano Orrù e Tiziana Orrù per la revisione del testo in lingua sarda. Infatti accanto ad ogni componimento in lingua italiana vi è la traduzione in sardo baunese che costituisce un unicum linguistico, con caratteristiche fonetiche, grammaticali e lessicali non riscontrabili altrove nell’isola.
Nelle successive e distinte sezioni della raccolta Il dovere dell’acqua, Su logu, su contu e Matteo Boe, Benassi abbandona il dialetto e mescola con armonia poesia e prosa poetica.
Nella sezione Il dovere dell’acqua sotto il nome di Linea di luce sono raccolte meditazioni su una fotografia di Valeria Floris:

I

Ecco la luce. Luce di luce, frattura di segno, corpo che cade molle alla luce. Scrittura di onde, legno crudele, spento, geometrico nella forma del corpo che cede alla luce, armonioso come linea che cede alla torsione sotto la fruste della luce.

E più avanti:

VII

Poi dilaga ed esplode / deflagra il muro / in un fragore di fotoni.

Come si vede, andamento prosastico, ma tagliato da lampi d’immagini e d’intuizione feconda per sintesi e invenzione linguistica. Anche nelle sezioni successive cogliamo un poesia sottilmente intellettuale, che incide sulla pagina disegni particolarissimi per grazia e intensità. Numerosi passaggi poetici sembrano sottolineare il fondamento della disciplina fantastica dell’autore secondo cui la matrice dell’invenzione risiede nell’osservare e descrivere precisamente.

Finissimo questo componimento che apre la sezione Su logu, su contu:

Mi chiedi dove sia stato la sera, / quale tramonto violetto, quale giorno / abbia trattenuto i denti del cuore. / Mi chiedi del mare / del filo di bisso, dell’abbraccio cavo / del sole all’ultima pietra. / Ero solo, ti dico, su una sedia / ad ubriacarmi al cospetto di Dio.

Sul piano dei contenuti espressi, toccante e avvincente è il tema della sposa come corpo desiderato, penetrato, abusato che invece l’uomo dovrebbe imparare a vedere con rispetto ed amore come corpo della propria compagna di vita “regina del bianco / signora del mare”, madre del dolce figlio bambino.
L’ultima sezione del testo è dedicata a Matteo Boe “l’uomo del coltello, i capelli neri bagnati”, l’ex primula rossa del banditismo sardo, legato alla pratica dei sequestri di persona di cui però nei versi non c’è cenno. In questo caso ci troviamo di fronte a una poesia che ama ritrarre le esistenze, che usa la propria capacità descrittiva, la rigogliosa mistura fra realtà e immaginazione per offrire il ritratto profondo di persone e situazioni, prese dall’omertoso e spigoloso mondo sardo e fatte divenire emblemi.
Vorrei concludere questa mia breve analisi con le parole dello stesso Benassi: “Nei testi di Matteo Boe ci sono condanna e dolore, l’uomo feroce che è giusto rimanga in galera e l’uomo coraggioso, ci sono il rapitore e il padre al quale hanno ammazzato una figlia, il bandito e il comunista che pensa a un mondo più giusto. A me interessa questa irrisolvibile contraddizione che esprime la condizione e il sentimento di un’Isola, dilaniata fra la resistenza di un passato antichissimo e l’ingombro di un’incompiuta modernità”.



Lidia Are Caverni su Di me diranno



“Di me diranno” o il canto degli umili coinvolti nella grandezza del Salvatore.
La tematica di partenza è quella tradizionale del Presepe: l’asino, il bue, la stella, ma ad esse si aggiungono il fico, il gallo, la croce, per terminare e concludere il ciclo di vita, morte, resurrezione: il lago.
Nuove sono però le fasi caratterizzanti i vari elementi: l’asino è l’animale che trasporta una donna che sta per partorire e veglia assieme al bue alla santità della nascita del bimbo, la fisicità del dolore del parto. Maria è sì madre del Figlio di Dio, ma è profondamente umana nelle fasi del suo metterlo al mondo con punte di intensa drammaticità.
Il dramma del parto si ritrova nella “Croce” con accenni anche crudi a chi ha generato il moribondo.
Il “Fico”, il “Gallo”, la “Croce”, sono tematiche nuove che esulano dal Presepe e segnano il percorso che accompagna il bimbo fino alla morte terrena.
Materie, albero, legno, animale che pure vivono, palpitano di fronte al dramma divino, intermediari innocenti della morte del Cristo.
In particolare la “Croce” che sembra far parte indissolubile con la sofferenza dell’Uomo.
La poesia è presentata sotto forma prosastica, mancano infatti le cesure, ma si individua tutta la musicalità del verso pur nella continuità del rigo.
Le parole sono incalzanti, pressate dall’esigenza del dire.
Così la “Stella” “E poi fui calore, fiato di bue nell’immensità dell’universo, nell’oceano del tempo, ribellione di atomi, fuga, fusione , fui grande stella rossa di sangue, luce di luce, lama rossa per l’occhio, canto di un sogno.”
Dalla domesticità del bue alla ribellione di atomi, rossa di sangue: la tragicità della nascita e della susseguente morte e infine la dolcezza del canto di un sogno.
La poesia non ha bisogno di scrittura in versi per esprimersi con tutta la forza, la bellezza come fa Luca Benassi.




Sergio Ribet su Di me diranno

Il testo è affascinante. Anche se l’inizio ci porta al Natale, non troviamo nulla del melenso che spesso invade la saga natalizia. Al contrario, non si nascondono le ferite e la tragedia del Dio che si fa uomo.
Il linguaggio è alto, colto, a volte al limite della comprensibilità. Ma proprio per questo obbliga il lettore all’attenzione, e all’ascoltatore chiede il rispetto dovuto alle regole, mai certe, della poesia.
Originale la scelta dei ricordi biblici. L’asino, il bue, la stella, il fico, il gallo, la croce, il lago. Parole che si trovano nella Bibbia, ma vengono volutamente spostate dal loro classico contesto. Perché la stella, o il fico, e via dicendo, possano esprimersi nel loro linguaggio, nella loro intima identità.

Per esempio: l’asino e il bue si trovano, insieme, nell’evangelo secondo Luca, capitolo 13, versetto 15. E nello stesso versetto c’è anche la mangiatoia (φάτνη che si può tradurre in vari modi: mangiatoia, greppia, specialmente di cavalli, ma anche stalla, o alveolo, dei denti). E troviamo l’alveolo a pagina 11 (il bue).
Ma l’asino e il bue non ci sono nel presepe, né in Luca né in Matteo (anche se nell’introduzione viene affermato gagliardamente che nei presepi tradizionali vi sono “sullo sfondo un bue e un asino, come sta scritto nei Vangeli” (pag. 4). Ma l’asino e il bue non ci sono nel presepe, né in Luca, cap. 2, vers. 1-20, né tanto meno in Matteo, cap. 1 e 2. Devo dire che anche tra i valdesi, che pure un po’ di Bibbia l’hanno mangiata, almeno da bambini, molti sono certi che l’asino e il bue c’erano: chissà perché nelle nuove bibbie non ci sono più? Chi si è permesso di toglierceli?
L’asino non è citato neppure quando Luca parla del viaggio da Nazaret a Betlemme (Luca cap. 2 vers. 4). E neanche nell’episodio della fuga in Egitto (Matteo 2 vers. 13-15), con buona pace di tutta l’iconografia e di tutta la tradizione cristiana, ortodossa, cattolica, protestante. Anche se nei viaggi è molto probabile che l’asino ci fosse.
L’asino e il bue di Luca 13, vers.15 non sono animali da presepe. Sono semplicemente asini e buoi, che i farisei trattano bene, meglio degli infermi che Gesù si permette di guarire anche di sabato.

La stella” (astro, in greco) è un corpo celeste, per gli antichi un essere vivente. Non è la cometa del presepio. Ma parla, con competenza, dal suo punto di vista astronomico.

Il fico” compare in ognuno dei quattro evangeli, e in molti passi biblici. Ma il fico che afferma “di me diranno sterile” è un fico ribelle, che perde la speranza. Ed ebbe freddo e paura. Gesù non è venuto anche per lui?
La parola greca per fico è σΰκον , che però può anche significare orzaiolo, tumore, vulva. ma questo fico è malato, sterile, triste. E non riesce ad amare Gesù, né di farsi amare da lui.

Il gallo” che ha incontrato Luca Benassi, o meglio che Luca Benassi ha incontrato, che gallo è? E’ araldo del mattino? o è più vicino a Pilato che ai discepoli? Perché dice “Non rivendicai, né rinnegai...” E chissà perché nella Bibbia c‘è spazio per il gallo, ma non per la gallina? per fortuna c’è la chioccia che raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali (Matteo 23 vers. 37 e, tanto per sottolineare la densità del capitolo 13 di Luca, in Luca 13 vers. 34).

La croce” è, tra i profetici “Di me diranno”, la profezia più polimorfa. È seme, sangue, sudore, è porta, è scala, è carne, è coppa, è pane secco. Di me diranno “il segno della storia”. Ma questo segno è simbolo, è “mettere insieme”, è metafora, è astronomia, è un credo. E questa storia corre oltre la storia “umana”. E’ disumana e divina, è bestemmia e preghiera, è spirito e carne, è parola e carne.

Ricapitolando, per noi moderni, o postmoderni, l’asino, il bue, il gallo, sono animali. Hanno un’anima. Il fico, per noi, è un essere vivente, anche se flora, e non fauna. La stella è, per gli antichi, un essere vivente. La croce, segno della storia, è parola fatta carne, quindi non è, in ultima istanza, un oggetto.
Ma che cosa sarà “il lago”?
Questo testo, già pubblicato nel 2009, non poteva intrufolarsi con gli altri soggetti, non poteva più dire “di me diranno”. Ma in qualche modo riesce ad entrare nel quadro. Ed è l’unico testo che ha esplicitamente un aggancio, una citazione biblica tratta dall’evangelo di Giovanni. Ma anche qui ritroviamo un depistaggio, interessante e plurale.
Giovanni, a differenza dei sinottici, usa più spesso la parola “mare”, inesatta, per noi, se applicata al mar morto o al mar di Galilea, che sono, a modo loro, dei laghi. E così, nel capitolo 21 di Giovanni, non si parla di lago ma di mare.
Ma il depistaggio è più ampio di questa piccola devianza. Chi parla qui? O di che cosa si parla? Il mestiere. Pietro. L’uomo che ha paura. E il testo, è una preghiera? una profezia? una predica? una confessione ... di peccato, o di fede? O ancora: è un appuntamento con Gesù. O con Dio. O nello Spirito Santo.
L’aspetto più bello di questo testo poetico è che non ci dà delle certezze, né dei dogmi. E si può allineare, in questo senso, con i testi precedenti. Ci apre a molte domande. E svela qualcosa dell’autore. Che, forse, è un credente, ma non un credente suddito, ma un credente libero, che può sbagliare, può raccogliere una messe abbondante, che vuole cercare, ed ha la speranza di trovare.

Perosa Argentina, 8 febbraio 2012




Rosa Salvia su Di me diranno

Le prose poetiche di Luca Benassi conservano l’atmosfera e i personaggi della tradizione religiosa cristiana: l’asino ( Di me diranno la pazienza della soma. ), il bue ( Di me diranno il fiato caldo. ), la stella (Di me ricorderanno la luce che segna la strada verso il bimbo. ), il fico ( Di me diranno sterile,…), il gallo ( Di me diranno il pianto amaro del tradimento. ), la croce (Di me diranno il segno della storia. ), il lago (Non c’è rete al dubbio se non quella / tesa al pesce, a rinnovare il mestiere del lago. Ma nel collaudato meccanismo dell’allegoria, Benassi introduce due sostanziali innovazioni: la rinuncia a qualsiasi morale spicciola e soprattutto l’elemento sorpresa. Mi viene spontaneo un riferimento a La Buona Novella di Fabrizio De André, per il quale il legame con i Vangeli Apocrifi è al contempo profondo e tenue: allo stesso modo per Benassi il ricorso alla rappresentazione tradizionale del Natale. Egli fa riferimento alla tradizione cristiana del presepe, ne usa alcuni strumenti, per poi stravolgerne lo schema statico e rituale. Attraverso immagini chi si rincorrono, si ammucchiano, ci meravigliano come fossimo bambini, e una sensibilità tenera e drammatica allo stesso tempo, offre uno spazio aperto all’incredibile, lo riempie di possibile, lo umanizza come fosse credibile, fino al tentativo di seduzione del lettore perché gioisca o soffra con lui. Ma la gioia è breve perché, essendo il corpo l’unico tramite col divino, il dolore fisico e psichico, che nell’iconografia tradizionale è totalmente assente, permea ogni verso, lo riempie di energia affettiva anche violenta che tende e musica la trama dei versi. …Fu paglia e calore di fiato, fu grido nel corpo che fioriva di dolore, l’incunearsi del tempo presente che si fa carne e sangue già pronto per essere versato, acqua di parto, liquido di croce che sudava dal corpo della donna. E poi coraggio e urla e urla sotto il peso divaricante del Dio che usciva dal ventre.
Con un volo di Pindaro, l’urgenza e la forte fisicità delle immagini, la concretezza e il colore del verso mi riportano a certe suggestioni della poesia di Sylvia Plath.
Al contempo il profondo senso religioso che pur traspare da ogni sillaba lo si comprende come si può comprendere una corsa di onde di mare agitato. Appassionato e radicale, trova una sua via speciale per dare voce alla pulsante istantaneità della vita nella poesia e nel verso. Il vivo del Tempo, l’immanenza, ciò che di misterioso e palpabile lega l’io al divino, un io che vuole superarsi, rompere le barriere della propria finitezza individuale per arrivare a una superiore conoscenza del mondo se pur attraverso il dubbio tormentato, l’angoscia gioiosa. In tal senso Benassi della stella scrive: E poi fui calore, fiato di bue nell’immensità dell’universo, nell’oceano del tempo, ribellione d’atomi, fuga, fusione, fui grande stella rossa di sangue, luce di luce, lama rossa per l’occhio, canto di un sogno. E ancora: Bruciai d’amore, conobbi la passione nucleare che genera l’esistere. / Conobbi infine il Tempo.
Dunque, la poesia di Luca Benassi si pone da un lato come forza eversiva, energia che libera energie, pratica che scardina il conformismo di ogni ordine, dall’altro come canto che celebra, che glorifica il mistero nei suoi aspetti ora solenni: il Cristo che muore,… Sentii il grido, l’ultimo fiato bruciare il nervo, squassare come vento le mie radici lese, il corpo di Dio sgretolarsi come pane secco nella notte, ora pacati e dolci: il Cristo che ritorna fra noi come vessillo di chi vuole una rigenerazione e come germe di ogni rinascita e di ogni futuro,
Di certo, mio Signore, dubitai / alla vista dell’acqua schiumante di miele / del tramonto, dubitai come la vertigine del tuffo / verso il nuovo arrivo. E tu eri sulla spiaggia ad / attendere / con il fuoco acceso, di brace, il pesce già cotto, / e il pane pronto / per essere spezzato.


Lucetta Frisa su Di me diranno

Amo molto i libri piccoli, hanno l’aria dell’intimità e del segreto che solo il lettore destinatario - quello devoto, appunto, ai piccoli libri e ai loro segreti – può apprezzare con la dovuta intensità . Ho amato molto i piccoli libri del nostro caro, prematuramente scomparso Alberto Cappi che negli ultimi anni di vita ha riversato in quei piccoli fogli il prezioso distillato delle sue meditazioni. Così come ho amato un altro libro piccolo - di dimensione e non di sostanza,ovviamente -,  intendo il drammatico e densamente variegato Sapienzali di Gianmario Lucini( Puntoacapo, 2010) e per finire non posso almeno accennare a Sentinella (Cartabianca,2011) di Marco Ercolani, come sempre lampeggiante emozione e intelligenza. Il livre de chevet  porta con sé, per destino, un alone di misticismo ma oltre allo spirito mistico può custodire anche quello irriverente, trasversale, di rivolta, essendo il piccolo libro sempre un po’ fuori dai margini, fuori da un diurno maior, e invece tutto dentro a un notturno minor: preghiere religiose e laiche, riflessioni, confessioni, invettive e sentimento amoroso di ogni tipo da rivolgere, nella propria solitudine esistenziale, all’orecchio di Dio così come sussurrare in quello della persona più amata e, infine, solo a se stessi. Scritti, si può dire, con la mano sinistra, colpevoli unicamente della propria disarmata sincerità da mostrare solo a chi è degno di riceverla. Misticismo, ho detto, eppure nel caso di Luca Benassi il misticismo è e vuole essere profondamente laico. Laico anche se scritto per il Natale e i protagonisti restano quelli dell’iconografia tradizionale: l’asino, il bue, la stella, il fico, il gallo, la croce, il lago - diciamo umili creature della natura (più un oggetto), apparentemente marginali nel grande scenario della vicenda - e della storia - della Natività. Tutti loro, per sempre coinvolti in questa sacra rappresentazione, si sacralizzano a loro volta, “innalzati” a simbolo dal contesto stesso, proprio per la loro presenza testimoniale. Parlando in prima persona, fanno assumere al piccolo libro il carattere di testo drammaturgico molto suggestivo da leggere o recitare a voce alta. Parte della loro magia non si spegne con le luci dell’albero natalizio, ma permane, a nostro piacere, nell’aria intorno a noi. Forse padre Turoldo ne sarebbe stato felice. A lui, per la precisione, è dedicata la collana editoriale della CFR intitolata Poesie dell’Essere. Non si poteva delimitare il campo meglio di così (anzi, allargarlo all’infinito…). Queste creature attraversate dalla commossa e delicata poesia di Benassi che in questo piccolo libro ci sembra particolarmente ispirato, escono dai canoni dell’agiografia popolare, si vestono di una loro fisicità spirituale o di una spiritualità fisica, di un dolore fisico e psichico - come scrive Lucini nell’appassionante e convincente introduzione. Infatti qui non troveremo nulla di metafisico, ma di fisico si, tutto è disceso qui accanto a noi sulla terra, Cristo si è veramente incarnato in tutte le cose, san Francesco canta a gola spiegata il suo canto delle creature e i papi – quelli troppo grassi, corrotti e malvagi – vengono subito inghiottiti dal girone infernale a loro riservato. Ognuna di queste minime creature a cui il poeta dà voce chiara e perentoria parla di sé con l’occhio al futuro. Di me diranno la pazienza della soma - inizia l’asino, il primo a parlare; Di me diranno il fiato caldo, continua il bue;  Di me ricorderanno la luce che segna la strada verso il bimbo - è la stella a parlare; Di me diranno sterile - continua il fico; Di me diranno il pianto amaro del tradimento - dice il gallo; Di me diranno il segno della storia - dice la croce -: e il lago (che allude anche a san Pietro), a differenza degli altri testi scritti in prosa poetica chiude l’ultima pagina con questi versi vibranti:

Non c’è rete al dubbio se non quella
tesa al pesce, a rinnovare il mestiere del lago.
Ritornai a pescare, come prima
come se nulla fosse accaduto sul mare di Galilea.
Certo, non nego la seduzione del tramonto
né le barche abbandonate all’eccomi
al ricordo dei giorni forti, promessi al pane e al vino.
Non nego la delusione che monta alla testa
il corpo di un uomo che muore sul legno
e che non dà gloria o regno, o significato alcuno
(così mi pareva) alla sua Parola.
E non nascondo la paura del martirio, del compiersi
del verbo su questa spiaggia: le barche erano lì
lasciate da allora e le reti pronte.
Forse ebbi paura,o fui deluso, forse
ebbi solo fame o fu la vista incerta
dei compagni all’orlo della fede.
Di certo,mio Signore, dubitai
alla vista dell’acqua schiumante di miele
del tramonto, dubitai come la vertigine del tuffo
verso il nuovo arrivo. E tu eri sulla spiaggia ad attendere
con il fuoco acceso,di brace, il pesce già cotto
e il pane pronto
per essere spezzato.


Piera Mattei su Di me diranno

[…]
Proprio sull’inizio dell’era cristiana, sulla nascita di Cristo, si apre e lì poi s’incentra il libretto di Luca Benassi. E come la Lilli dava un’interpretazione dei sacri testi molto lontana dai commenti canonici, così Benassi. Solo che lui intende sostituire all’immagine oleografica delle splendide infinite Natività dei nostri pittori – una madre ben composta, ben vestita e con i capelli splendidamente acconciati, anche se non frontalmente immobile come nelle icone orientali, un’immagine comunque non credibile nella sua fisicità – un’immagine estenuata e devastata, anche se appagata, quale è sempre quella un corpo femminile da poco attraversato dalla nascita di un figlio.
Anche in Luca sono soprattutto gli animali ( l’Asino, il Bue, il Gallo) a parlare, a raccontare di quanto hanno visto, di come hanno trattenuto i loro istinti, per rispetto di quella nascita. Tra tutti, per la simpatia che ci lega a quell’animale e la grazia che, contro ogni luogo comune, qui dimostra, vogliamo citare le parole dell'Asino:

Ebbi fame, ma la paglia era già occupata

dal corpo fremente
del bimbo

In questa riscoperta della verità dell’ambiente fisico che circonda il Natale, per raccontare la storia eterna della rinascita e degli inizi, che ha anche l’odore del sudore, degli umori del corpo, una storia dove risuona il grido, la cometa non è una forma piatta a cinque punte e la sua brava coda, come nei presepi di cartone, è un mondo lontano e dinamico, un corpo in esplosione: Infine schiantai, espulsi me stessa milioni di volte, e fui più bianca del bianco, più luce della luce. Descrizione conforme a una materialità che la contemporaneità scientificamente conosce, e che Benassi trasporta con linguaggio poetico, nei territori del mito religioso.


Giuliano Ladolfi su Rivi strozzati. Poeti italiani negli Anni Duemila

Luca Benassi, Rivi strozzati. Poeti italiani negli Anni Duemila, Roma. Lepisma 2010
«La critica militante in Italia soffre di una crisi inversa rispetto a quella della poesia. Più questa prolifera in modo inarrestabile con un numero di libri pubblicati che supera i trentamila titoli all’anno, più la critica sembra ridurre il proprio ambito territoriale di indagine, prendendo come due unici criteri quello della già attestata notorietà e quello, ancora più discutibile, dell’appartenenza editoriale». Luca Benassi entra immediatamente nel vivo della questione ed affonda il coltello nella piaga con acutezza e competenza dimostrando di possedere rara documentazione sugli studi compiuti, sulle riviste e sulla situazione. Lo studioso, dopo quest’analisi preliminare, passa in rassegna prima i Poeti nati negli Anni Settanta, quindi altri autori per sezioni: Poesia come atto etico, concludendo con Quattro poeti narratori. Emerge un quadro composito e variegato delle diverse tendenze della poesia contemporanea, presentato in modo chiaro. Il curatore recensisce numerose raccolte inserendole in un contesto generale e privilegiando lo stile lirico rispetto a quello asciutto ed essenziale e le valuta fornendo un prezioso supporto a quanti vogliono aprire uno spiraglio di senso nel caos della poesia contemporanea (G. L.).


Giuliano Ladolfi su L’Onore della polvere

Luca Benassi, L’onore della polvere, Novi Ligure, Puntoacapo 2009
Ritorna sulla scena della poesia italiana Luca Benassi, conosciuto anche come critico letterario, con una raccolta eterogenea, ma sempre interessante. Le diverse tematiche sono legate da un accordo di fondo, “l’onore della polvere”, cioè dalla necessità morale di conferire dignità alla realtà quotidiana che non solo viene accolta in ogni aspetto fenomenologico, ma addirittura percepita come la sola a possedere il sigillo dell’autenticità. Il nome e il battito cardiaco, sulla scia di Andrea Temporelli, rievoca cinque lastre ecografiche della moglie in attesa della figlia («Prende senso questo mondo / girato, rovesciato come un guanto / polarizzato verso un’asse che attende l’uscita / dal tuo grembo»), quando trepidazione e speranza diventano lievito di una nuova e palpitante esperienza. Poi l’esistenza conduce le persone su altri cammini e allora il poeta («Qui mi sento acqua di acqua») soffre la pena del distacco: «Hai deciso di andare via / nasconderti dietro una colpa / che fa scudo e casa insieme». Non mancano momenti di intensità lirica anche di carattere religioso («Di certo, mio Signore, dubitai / alla vista dell’acqua schiumante di miele / del tramonto, dubitati della vertigine del tuffo / verso il nuovo arrivo»), dove la fede adulta richiede non solo un assenso dell’intelletto, ma anche una conversione di vita. Dopo una sezione dedicata all’ambiente domestico, il poeta, come Maria Luisa Spaziani, si abbandona al fascino della vita quotidiana: «Siamo come barattoli pieni / di spezie nella cucina / con le tisane da scegliere con cura / siamo l’ortica, il tiglio e la melissa» (G. L.).


Alessandro Ramberti su L’Onore della polvere

La scrittura di questa raccolta è caratterizzata da uno stile diaristico tendenzialmente lirico costellato da versi di intensità aforistica e da immagini e accostamenti che ci “rivelano” la quotidiana sorpresa della vita (di questa polvere umana che “sa” di esserci): «La pioggia che batte sul giorno / non riesce a sbiadire gli screzi / le righe bianche e nere / che segnano il cono dell'ecografo» (p. 7); «Il monitor oggi è un paradiso muto / un verde pigro di foresta» (p. 15); «C'è un posto nell'ordine spezzato dei parcheggi / dove la strada meridiana uccide l'ombra» (p. 17); «non rimane che guardarsi intorno / a formare gli oggetti con i gesti noti / l'urto dell'impatto della vista» (p. 40); «Sappiamo bene che il tempo è dato / una dimensione finita / senza vento, o mare, o cielo / dove il corpo si disfa ad ogni tramonto» (p. 57).

Ho particolamente aprezzato la poesia Il lago ispirata al passo di Gv 21-3-4 in cui si parla della notturna pesca infruttuosa di Pietro: la narrazione del fatto, che Simone fa in prima persona, ci propone una immedesimazione di Benassi nella “scena” particolarmente riuscita, sostenuta da un ritmo ondoso di versi lunghi e brevi che danno spessore alla memoria e la ravvivano: «Certo, non nego la seduzione del tramonto / né le barche abbandonate all'eccomi / (…) / Di certo, mio Signore, dubitati / alla vista dell'acqua schiumante di miele / del tramonto, dubitai come la vertigine del tuffo / verso il nuovo arrivo. E tu eri sulla spiaggia ad attendere / con il fuoco acceso, di brace, il pesce già cotto / e il pane pronto / per essere spezzato» (p. 35).


Mario Fresa su L’Onore della polvere

L’onore della polvere di Luca Benassi (editrice Puntoacapo, 2009) è un libro denso e intelligente, che si snoda con una felice compattezza e che si mostra dotato di una sincera (perché mai «letteraria») tensione sempre commossa e partecipe. La raccolta si presenta come un itinerario insieme dolente e coraggioso: il cammino s’inizia con la narrazione delle prime fasi di una nascita (nella prima sezione, intitolata Il nome e il battito), e prosegue fino al sofferto delineamento di un’identità finale, quella di un «adulto», che appare, in fondo, povera e fragile, ma pronta, in ogni caso, alla lotta, al riscatto, alla sfida con il nulla incontrastabile che avanza. Questo meravigliato viaggio costruisce, a poco a poco, una coscienza paradossalmente «forte» delle sue incertezze: l’uomo-padre accompagna la propria creatura (e se stesso) verso l’inquieta destinazione dell’esistenza, conducendolo ad abbracciare il suo carico di gioia e di polvere, e alla fine si riscopre come figlio, cioè come una creatura perennemente affamata e desiderosa di risposte e di luce. I termini di partenza e di arrivo dell’itinerario, dunque, si ricompongono: e il poeta, da «genitore» ridivenuto, adesso, teneramente «infante», s’immerge nelle quotidiane intemperie della vita con il dono della sua umile ricchezza, ricuperando il bene e la necessità del suo «onore», cioè della propria dignità umana, appunto dalla consapevolezza della sua stessa indifesa, vulnerabile finitudine: ed è tale potente connubio di tenerezza e di energia che rende la raccolta di Benassi un’opera di rara e suggestiva bellezza


Sebastiano Aglieco su L’Onore della polvere

Si apre, questo libro di Luca Benassi, con un poemetto emozionante dedicato alla nascita di un bambino. Ci si potrebbe fermare qui, a queste 6 ecografie scritte in nome del battito di un cuoricino che si affaccia alla vita e che subito sconvolge padri e madri e riempie di nostalgia chi avrebbe voluto avere dei figli e la vita non lo ha permesso.
Soprattutto l’urgenza di questo sguardo – urgenza, un tema che ultimamente mi appare sempre più necessario – piega le parole al duro lavoro di ogni vera arte: la nostra sopravvivenza.
In questo libro c’è durezza e grazia, privato e sociale. Ma anche grido, invettiva, rabbia. L’onore della polvere è quella riservata ai poeti in versi durissimi:

a te che imbocchi come un pesce la metro
e incappi la rete del mistero
a te che rantoli quando la lama esce e il sangue
gorgoglia nel polmone sfondato
quando la tregua e gli accordi vengono violati
a te, poeta, si concede l’onore della polvere.
p. 36

Letteralmente, perché la casa di ogni poesia è veramente la polvere, il luogo più basso della terra, non certo il più vile. Così acquistano più senso le parole dell’inizio: “un puntino era ancora nostro figlio”, p. 7.
“Ed è già nome, uomo,sentimento/questo nostro figlio”, p.9
Ed io sono in bilico sul momento
sulla linea di carne
che segna ogni convergenza sul ventre
in attesa che sia la luce
e non più il suono
a disegnare il volto.
p. 11

Che potrebbe essere anche la descrizione della nascita delle parole; se non fosse che, le parole, mai sono naturali, mai hanno l’innocenza e l’ineluttabilità dell’apparizione di un piccolo essere. E questo è il motivo del tono di invettiva che spesso sentiamo in questo libro: l’aspro richiamo al mondo, alla costruzione del mondo, ai poeti, alla loro pretesa di essere veggenti.

Hai ceduto alla lusinga dei fonemi, ai sestanti
coraggiosi disegnati nella polvere, ai libri
senza ordine sugli scaffali inaccessibili.
hai disegnato la geografia e firmato accordi
per regolare il tempo del perdono.
ma la sfida di questo tempo
è una barca sullo Stige e la moneta
che paghi il silenzio di Caronte
è senza faccia e iscrizione.
p. 47


Ugo Magnanti su L’Onore della polvere

Vi è un respiro assiduo e regolare, un alone, una pulsione lucida, quotidiana eppure epica, nella poesia di Luca Benassi. Una presenza che fermenta sul fondo delle parole, e che si addensa in motivi coerenti, in un racconto frantumato da una disomogeneità di luoghi, figure, epoche e contesti, ma sempre ricomposto da uno stile sicuro, da una corrispondenza fra il proprio percorso umano e la propria ricerca poetica.

La scrittura di Benassi vive di ombre e di riflessi, e di quelle intime lacerazioni che fervono nella natura stessa dell’atto poetico, e che si stagliano sull’esercizio della poesia, o sul senso dell’essere poeta, in una personale e misurata inquietudine, offerta alla decadenza dei tempi presenti.

Ma è anche una scrittura che si nutre di vita, di un’incantata ovvietà quotidiana, perfino quando il mito e la letteratura appaiono preminenti; una scrittura che riesce a proiettare sfumature segrete su tutto quello che guarda, e, a tirar fuori una storia da tutto quello che tocca, per rifarsi alla citazione andersiana posta da Benassi in esergo alla sua raccolta L’onore della polvere.

Soprattutto nei testi di questa raccolta, l’incessante dono della realtà, continuamente sottoposto al rigore di uno sguardo disincantato e tuttavia lirico, si mescola a una riflessione mai invadente, ma sempre assillante, sulle ragioni della poesia, e soprattutto sul significato degli esseri chiamati ‘poeti’.

Benassi marchia le adiacenze tra i segni del presente e le urgenze meta-poetiche, col fuoco del mito crudele di Marsia. Il poeta è destinato a perdere la sfida della contemporaneità, in un luogo dove la poesia appare inutile, priva di valore, rimossa da una attualità irresponsabile, e segnata da inesauribili distanze, o meglio, da una rassegnata alterità rispetto a quei contesti razionalistici e utilitaristici, che in un modo o nell’altro, ne favoriscono il declino, o la presunta fine.

Uno dei simboli più toccanti di questo smarrimento rivelato da Benassi è il flauto: quello di Marsia, “fatto di occhi”, “minuscole galassie”, “buchi neri”, “gocce di latte”, capace della disperata precisione del “tuono” e del “… fruscio della foglia / che si stacca dal ramo; e ancora, i flauti evocati in un frammento de L’onore della polvere attraverso “le ossa vuote” che “soffiano” al vento. Sono le ossa della nudità e della fragilità del poeta, di colui che, come nel Flauto di vertebre di Vladimir Majakovskij, “… suonerà il flauto / sulla sua colonna vertebrale”, per manifestare la propria esistenza usurata, e perfino, la propria mancanza “… di un petto / su cui attaccare la medaglia”, come racconta Benassi, in un disfacimento del poeta, anche materiale, che riporta alla mente un misterioso brano del poema neogreco Il flauto del Re, di Costis Palamàs, in cui uno scheletro regale, rinvenuto con un misterioso flauto in bocca, simbolo di poesia, si dissolve al tatto di chi lo tocca.

Nella rappresentazione del poeta, il ribaltamento della formula montaliana, quella del Non chiederci la parola, che per Benassi diventa “solo questo sappiamo: chi siamo e cosa vogliamo”, si gioca sul limite fra registro ironico ed estremo tentativo di riaffermare una plausibile esistenza della poesia fra le “rovine” delle “nostre città”, dove ormai nessuno si sogna più di domandare verità universali e definitive a nessuno, e meno che mai alla poesia, tanto che uno dei soliloqui di Benassi, in cui si allude al ruolo vaticinante del poeta nella decifrazione del mondo, sembra pronunciato davanti a uno specchio, davanti a un proprio doppio, in un isolamento assoluto, nel quale sono i pensieri del poeta stesso a generare le inverosimili recriminazioni degli esseri altri. “Non dite infine che serve una metafora / a spiegare il traffico, i cocci aguzzi sotto le ruote / e la notte guasta di amori infecondi. / E poi non accusate noi poeti / di non avervelo detto / e di non avervi ascoltato.

Ma per Benassi questa disfatta contemporanea della poesia non si compie supinamente, senza che sia la polvere stessa, elemento che allude alla terra, al basso, alla scoria, a tentare l’onore di un riscatto, con la sua attitudine a battezzare la marginalità e la non conformità della poesia, quasi con un gesto di orgoglio, con una amara e sottile separazione che ci parla dell’ostinata difformità, ma anche appartenenza, del ‘poetico’ rispetto al ‘reale’. È per questo che la poesia abita la polvere, ed è per questo che il poeta diventa addirittura il vetro che ama la polvere, per la sua vocazione a far trasparire quell’essenza sconfessata da una contemporaneità in cui, nondimeno, tutto in fondo è polvere, anche i cocci aguzzi ‘montaliani’, destinati a sgretolarsi, ad essere schiacciati, a divenire anch’essi polvere, appunto, ma polvere a cui si nega l’ordinaria facoltà di ricevere la scintilla di ciò che si cela dietro le cose visibili.


Poiein (recensione non firmata) su L’Onore della polvere

Un leggero trasalimento pieno di serenità e di vita apre questa nuova raccolta di Luca Benassi, trentaquattrenne poeta romano, che ha alle spalle due belle raccolte (I fasti del grigio e Nei margini della storia). 

L’onore della polvere è una raccolta che sembra scritta come in sogno, oppure nel corso felici incursioni nell’inconscio (che più o meno è la stessa cosa), attingendo alle sensazioni più segrete ispirazione e linguaggio, nel segno di un figlio che deve nascere, nella pensosità di chi in qualche modo percepisce una tappa conclusa della vita e una tappa da cominciare, come colui che al gomito del sentiero misura il cammino fatto e quello ancora da percorrere.  Benassi evoca, in questa lucidità vestita di onirico, una complessa gradazione di sentimenti che segna l’assunzione di responsabilità, insieme alla meraviglia per la nuova vita che nasce, sia di ruolo che di relazione - sentimenti peraltro tipici di situazioni del genere, che però sembrano soverchiare la stessa percezione, attutire in una sola sensazione olistica una complessità inesprimibile.  In ogni caso, l’effetto dei suoi versi ha un impatto emozionale molto forte nella lettura, capace di contagiare il lettore.

Nella seconda sezione, La trattativa, l’accento si sposta alle dinamiche del conflitto - da non confondere col litigio, come spesso accade per questa parola.  Il conflitto è legato alla nostra essenza e deve esserci, sempre, in ogni rapporto umano.  Un rapporto senza conflitto è un rapporto convenzionale, direi morto. Gli uomini hanno inventato, per risolvere il conflitto, il rituale della trattativa, che però viene snaturata nella sua essenza se non viene affrontata con un altro approccio relazionale ben di verso da quello a cui siamo abituati.  Benassi individua, con sottile sapienza ma anche con una evidente conoscenza della psicologia del conflitto, gli elementi che strutturano il conflitto, nel bene e nel male.  Accenna alla paura che sta dietro ogni trattativa, della quale ognuna delle “parti” deve farsi carico (la propria, l’altrui), paura che ha la sua radice nelle aspettative personali, nel profondo dell’Io o forse dell’Es e che fatalmente porta alla violenza, se non è accolta e capita.  E il dubbio e la sfiducia nell’altro, rievocata con molta partecipazione e bellissimi versi nel monologo di Pietro ispirato a un passo evangelico (Gv, 21, 3-4).  Ma il conflitto viene spesso chiuso o per stanchezza o per asimmetria nelle relazioni fra le parti - e di fatto non chiudendosi mai ma permanendo il latenza.  Alcune poesie in corsivo formano la trama di questa sottilissima scrittura, e si riferiscono alla trattativa-tipo, ad esempio quella sindacale, quella per affari, quella fra congiunti.  I meccanismi che scattano sono sempre gli stessi, giocati in diversi contesti.  Sembra incredibile che una materia tanto tecnica, come questa, possa essere tematizzata in una silloge di poesie, ma Benassi lo ha fatto, senza peraltro mostrare di volerlo fare (e forse neppure volendolo, nelle sue intenzioni consce) e con una risultato poetico davvero sorprendente.

Nella sezione successiva si scivola dal conflitto alla violenza, con una silloge che è anche un racconto in versi, che tematizza le emozioni e le sensazioni di un caso-tipo di omicidio per amore.  Anche qui, il poeta individua con estrema precisione la radice della violenza che nasce per “fare paura”, senza intenzione conscia, ma in un’ottica di sopraffazione dell’altro e dunque in un “delirio di onnipotenza” che vorrebbe obbligare l’altro a piegarsi al nostro volere.  Anche qui, versi molto belli e musicali che riescono a riscattare la (raccapricciante) banalità di questi paradigmi negativi e collocarli in un senso nuovo, in una prospettiva aperta.

Una breve sezione di 5 poesie rievoca la sfida del flautista Marsia ad Apollo e la sua punizione (essere scorticato vivo) che è il segno di una giustizia prepotente e feroce verso la hybris - e, fra le righe, un monito ad essere pronti, a diffidare nella certezza delle regole sin quando le regole sono dettate dai potenti e dai prepotenti.  Infine la sezione Poeti vuole essere una difesa della poesia e del ruolo dei poeti: non è possibile pretendere che siano loro a cambiare il mondo, poiché le trattative che condizionano le nostre sorti, i giochi, si fanno altrove (“Se le cose stanno così / è perché si saranno incontrati / avranno portatop carte, grafici obiettivi / intorno a un tavolo, fino a sera / avranno chiuso l’accordo e firmato la tregua”).  Al poeta compete stare nella vita e leggere il mondo con i suoi occhi, che non sono quelli del conflitto perché non devono servire una parte in causa.  Con forza il poeta ributta la responsabilità ad ognuno (“Non dite infine che basta una metafora / a spiegare il traffico, i cocci aguzzi sotto le ruote / e la notte guasta di amori infecondi.  / e non accusate noi poeti / di non avervelo detto / e di non avervi ascoltato”).

La scrittura è esperta, attenta, fortemente allusiva, carica di atmosfere oniriche e limpida, senza mai impennare o trovare incertezze.  A nostro avviso un bel libro, e un bravo poeta che ci riconferma la stima che già avevamo nella sua scrittura.


Piera Mattei su L’Onore della polvere

Se il libro precedente di Luca Benassi aveva nel titolo un colore che è la negazione stessa del colore ("I fasti del grigio"), in questo "L'onore della polvere", per quanto incolore sia il miscuglio che si deposita al suolo, lampeggiano i violetti e il rosso. Quest'ultimo essenzialmente come connotazione cromatica del sangue. Sangue che sale nella siringa del prelievo, sangue d'una metaforica immaginata mattanza nell'imbuto alle uscite dal metro, sangue come macabra tisana, sangue infine sparso per gelosia? per far paura? per imprudenza?
Eppure a rileggerli più attentamente è facile riconoscere nei due libri una stessa struttura, individuare un progetto poetico che si sviluppa in coerenza ai propri inizi. Cominciamo da titolo: in entrambi i casi un'espressione ossimorica non solo ma, direi amaramente ironica, in cui il secondo membro = il grigio, la polvere, contraddice all'aulicità del primo = i fasti, l'onore. Una stessa eroica maniera di immaginare la vita, una stessa disillusione, ma, come accennavo agli inizi, non è senza significato che diversa sia la colorazione del cosmo.

Veniamo alla struttura dei due libri: entrambi si aprono su cinque poesie a carattere diaristico, nel primo caso al centro dell'attenzione è il cane randagio di recente adottato, creatura che ha un rapporto conflittuale col guinzaglio, lo strumento di resa e sottomissione che infatti dà il titolo alla raccolta.
Sono trascorsi quattro anni fondamentali nella vita del giovane poeta e ora le cinque poesie dell'inizio hanno tutt'altra pensosità e tenerezza. Il randagio è scomparso, forse è tornato alla sua rischiosa libertà, e il livello delle responsabilità nell'uomo è mutato qualitativamente. Qui le cinque delicate poesie d'esordio sono dedicate all'immagine ecografica del figlio nel ventre della madre, che con scadenza mensile, mostra l'evoluzione delle sue forme fino alla completezza.

Proseguendo nella comparazione, segue in entrambi i libri una sezione in cui alle poesie in carattere tondo corrisponde un controcanto nella pagina opposta in corsivo. Una sorta di litania che batte e ribatte lo stesso motivo. In " I fasti del grigio" si trattava di un tappo, che, inutile dirlo e ripeterlo, non chiudeva bene, metafora di una disfunzione subdola nella sua normalità, che si prestava ancora al sorriso e all'ironia. In carattere tondo, al problema del tappo inadeguato corrispondevano le immagini sì, grigie, di un luogo di lavoro, con la noia e le rivendicazioni, gli spazi dedicati all'evasione (la macchinetta del caffè).
Nel nuovo libro si tratta invece, più torvamente, di un bordone che canta e ricanta di un tavolo delle trattative, segno che un conflitto è in atto, la conciliazione difficile. Sulla contropagina vicende di un mondo ristretto all'ambito familiare, di tragica claustrofobia: un padre, dei figli, un abbandono.

La nota epica che serpeggiava nel libro precedente nella sezione "L'assedio" ha qui il suo corrispettivo in "Il bacio", poemetto che, dopo un'invocazione alla Musa, prende a tema un omicidio consumato nella periferia romana, che ha nelle sue motivazioni solo il voler far paura. La cura con cui l'uomo sistema il letto prima di uscire a prendere la sua donna all'uscita dal lavoro, in una strofa molto ben costruita, rimanda la situazione di un disoccupato, che si accomoda alla sua situazione e diventa improvvisamente aggressivo quando riconosce ciò che già sapeva, di essere un perdente. Questa sezione, il particolare ambiente urbano che sottintende e descrive, mi ha fatto ricordare che Luca è stato tra quanti hanno seguito e promosso, negli scorsi anni, l'originalissima voce di Paolo Borzi. Qui, certo, niente musicali ottave eppure vi si legge un omaggio allo stile dell'amico. La leggerezza e il gioco che dietro un velo di tristezza aleggiavano nel primo libro hanno ceduto il posto al sarcasmo, l'epica con sottintesi romantici, cioè l'astuzia per vincere il conflitto scatenato dal desiderio di avere Elena, si risolve in un racconto grandguignolesco. Proprio in questo poemetto il rosso "che diventa il sangue / che arrossa la terra" si accende anche sui muri del quartiere, sui tramonti, contrasta cromaticamente con "la brama nera", col "maglione bianco" della donna.
Le ultime due sezioni sono dedicate ai poeti: una porta proprio quel nome,"Poeti", l'altra è dedicata a quell'estrema tenzone che si concluse con lo spellamento di Marsia. E certo è una bella sfida mettersi a competere, conservando, direi, intatto l'onore, con Ovidio e Dante. Il senso finale è che poesia è non solo il modo con cui raccontare le cose o sentirle, la poesia è qui, nell'ultimo libro di Benassi, protagonista rosseggiante che pretende infusi degni di Medea:" Mettete in infusione le vostre viscere / bollite come pesci o patate / e poi colate il succo rosso / che si incrosta al fondo della tazza."



Anna Spissu su L’Onore della polvere

Caro Luca
L'onore della polvere” ruota intorno a un nucleo centrale rappresentato dalla “trattativa”. In una visione del mondo che definirei primordiale, in attesa di una misteriosa partenza e di fronte a un’inevitabile onda, davanti alla marea nera che travolge tutto, gli esseri umani partono per la loro corsa quotidiana, come “salmoni ignari verso la mattanza”. Vivere vuol dire dover comunque iniziare la trattativa in un mondo incontrollabile come un oceano, senza regole certe cui attenersi, senza punti cardinali. E dentro a questo mondo si consumano storie private di abbandoni che, come ne “Il Bacio” e “Marsia”, sfociano nella tragedia. Lì la trattativa è rotta per sempre, né valgono “gli accordi per regolare il perdono” perché la morte rappresenta il fallimento definitivo, l’impossibilità civile di uscire da ogni mattanza. Resta “lo sguardo attonito del carnefice, senza poesia e senza suono.
Esiste però, una possibilità di riscatto perché fuori dalla trattativa ci sono la forza e la bellezza della vita, lo stupore della vita che nascerà, “la macchia scura che inarca le pareti della gioia”. “Il nome e il battito” sono parole assolute capaci di trasformare “l’umido dell'indecenza” in “amore, gioia, e vita”.
In mezzo alla trattativa c’è la figura del poeta, intesa come colui che “non fa trattative”, sebbene anche lui “partecipi” al mondo inondato dalla marea.
Il poeta è colui che ha la coscienza della mattanza, è colui che soffre del male del mondo, non ha un petto su cui attaccare medaglie, ma per la sua coscienza, per la sua “resistenza” che consiste nella consapevolezza, gli spetta almeno “l’onore della polvere”.
Ecco Luca, io direi che questa è la sintesi del tuo libro vibrante e intenso, della consapevolezza che la poesia può essere un luogo privilegiato dove depositare la dignità delle cose e forse porre un argine al dolore, alla insensata marea.
Naturalmente questo sei tu, sono le cose che hai scritto nel tuo articolo sulla “poesia come atto etico”, nelle cose che hai detto nella tua presentazione. E di fronte a tanta produzione poetica che senza alcuna consapevolezza si qualifica come poesia per il solo fatto che ciascuno di noi ha dei sentimenti, ecco, “L’onore della polvere” arriva come un pugno nello stomaco, una pagina aperta che non si può chiudere, un conto che non si può far finta di chiudere o di ignorare perché riguarda tutti.



Stelvio Di Spigno su l’Onore della polvere

Giunto al traguardo del secondo libro, Onore della polvere, Luca Benassi compone, organizza, immette una gradualità invalicabile tra le varie misure di struttura alle quali è pervenuto. Si dimostra così un autore cosciente delle proprie possibilità tecniche, oltre a fornire le credenziali di un poeta completo e dal tratto sicuro – aspetto questo sul quale bisognerà discorrere un poco. Onore della povere è un libro a tappe: parte con la prospettiva di creare una lirica a doppio binario, nella quale  testi maggiormente riflessivi fanno da contrappunto ad altri vaghissimi, al limite dell’evanescenza. Prosegue, con le sezioni Il bacio e Marsia, con delle sequenze di forte puntualità e impegno personale. Termina con la sezione Poeti, giungendo a una linearità statuaria, marmorea, senza cedimenti, nel quale l’autore dimostra di essere ormai giunto al punto nel quale la sua poesia può affrontare la durezza scaturita dal proprio vissuto di poeta e di individuo. Un commentatore un po’ incongruo ha scambiato questa varietà compositiva come frutto di una vena alquanto composita (parola che nasconde il significato reale di indecisione, deriva, frammentarietà). Ma è proprio su questa vaerietà che bisogna stare, se si desidera realmente entrare e abitare questo libro che testimonia una ricchezza di motivi e di ragioni al di là delle medie aspettative della poesia d’oggi. La prima sezione, come accennato, affianca virtuosamente testi al limite della prosa diaristica ad altri di grande suggestione e vaghezza, quasi che i primi volessero glossare i secondi. Ma entrambi possiedono un’autonomia che ci introduce nella vita concreta di Benassi, come se si trattasse di un prologo necessario per effettuare il decollo delle sezioni e delle poesie a venire. Onore della polvere rappresenta la trasfigurazione fantastica di dati biografici sofferti; dati che testimoniano la responsabilità di un artista con le carte in regola che non vuole tradire l’esistenza che si è faticosamente costruito. Di questa vicenda esistenziale si trova traccia in tutto il libro, anche lì dove le soluzioni fantastiche sopravvengono a quelle evenemenziali. Il pieno bilanciamento dei due fattori, quello prettamente lirico e quello causticamente biografico, si ha nelle due sequenze poste strategicamente al centro dell’opera. La tecnica sequenziale può essere letta come il tentativo di unificare il mistero di una vitalità inspiegabile che si cala (ecco il secondo fattore) nel calderone del vivere senza evitare i doveri del giorno pieno. Una volta provato al lettore che ciò è possibile, Benassi vira con decisione alla completa cristallizzazione delle due anime di questo lento lavorio, concludendo che solo chi dura la fatica di scendere nell’agone delle cose ha il diritto a un linguaggio di evasione: può permetterselo, ne è autorizzato, è legittimato a farlo. Non si tratta di un teorema da dimostrare: è la semplice constatazione che la lirica pura, a qualsiasi tribù voglia iscriversi, non basta a se stessa se non è sostenuta da una base etica che non si esaurisce nella millantatoria «etica della forma», tanto cara a poeti più o meno impegnati. L’estrema sintesi della fusione di queste due “anime” poetiche possiamo ritrovarla nei primi tre versi che aprono l’ultimo testo del libro: «Chi di noi porterà la fiaccola in cima / e da quella altezza guarderà i delta dei deserti / che conservano fatti elementari?». Potrebbe essere, questa breve interrogazione, l’esergo che immortala l’intera vicenda biografica e creativa di Benassi. Il messaggio finale, tutt’altro che acquiescente, è questo: la poesia è credibile se chi la scrive sa anche competere con la propria storia di uomo singolo, irripetibile, irrinunciabile. Benassi, con Onore della polvere, si dimostra capace di entrambe le cose.



Motivazione al III Premio per L’Onore della polvere
Premio Farina, edizione 2011

“L’Onore della Polvere” (puntoacapo editore, Novi Ligure 2009) di Luca Benassi si situa, all’interno del percorso letterario del giovane poeta romano, come opera del completo raggiungimento della dimensione adulta, con il suo carico di difficoltà e consapevolezze, alla ricerca di una stabilità esistenziale, in qualche maniera coincidente con l’affermazione di una ‘voce’ poetica. Quest’ultimo aspetto è evidenziato da uno stile che colpisce per la ricchezza di immagini, pur attraverso un linguaggio terso e puntuale, e da un’architettura in sezioni e sotto sezioni in grado di sorreggere il portato della riflessione umana e letteraria.
La maturità del poeta coincide con l’affacciarsi di una nuova vita e con l’esperienza della paternità. È quest’ultima, tuttavia, un’esperienza mediata dal monitor dell’ecografo, attraverso il quale il prossimo genitore osserva la propria discendenza crescere nel ventre materno. Sono queste le cinque poesie della sezione che apre il libro, “il nome e il battito”, ognuna composta come una sorta di didascalia in occasione delle ecografie fatte durante la gravidanza della moglie. Presto il tema della paternità volge nel suo contrario, nell’abbandono, e il monitor diventa nel prosieguo della raccolta strumento per affacciarsi e comprendere il contemporaneo, e veicolare la poesia stessa. La poesia è dunque, come uno schermo e al pari dell’occhio dell’ecografo, strumento di indagine dell’esistente; uno strumento il quale, lungi dall’essere preciso e assoluto, è invece frutto di una continua, inesausta mediazione con il linguaggio e i parlanti, e in definitiva con se stessi. È questo il nocciolo del libro, sostanziato nella sezione “la trattativa”, che sulla falsariga di un negoziato sindacale destinato ad equilibrare istanze e tensioni nella forma di un accordo, esprime l’essenza di una mediazione umana e civile. Essere uomini e cittadini, sembra dirci Benassi, è un continuo scendere a patti con se stessi. Neanche il poeta sembra riuscire a sfuggire da questa dimensione: la sfida all’assoluto è inevitabilmente persa in partenza come ci ricorda il mito di Marsia, soggetto di un poemetto all’interno del testo, destinato a perdere la sfida con Apollo e finire scuoiato. Al poeta, oggetto della sezione “poeti” che chiude il libro, non rimane che l’onore della polvere, la consapevolezza di portare “la fiaccola in cima”, nonostante gli “accordi violati” e  il destino dell’essere inascoltati. Attraverso una scrittura tesa e ricca, “L’onore della polvere” racconta l’inquietudine dei nostri tempi, mostrando la maturità umana e letteraria di questo giovane poeta romano.



Gian Ruggero Manzoni su L’Onore della polvere

L’Onore della polvere è un libro molto bello, intenso, in cui la poesia incalza e diviene corpo, materia. Da un impianto lirico, la raccolta si trasforma in un insieme epico, in cui il vivere la scrittura e l’andare nell'esistenza si amalgamano, trovando un equilibrio nella sfida a un possibile oltre. Intense le immagini, quindi le metafore.



Fabio Franzin su L’Onore della polvere

Caro Luca, ho appena finito di leggere il tuo L'onore della polvere, con passione e concordanza, testo che conferma, e amplia, l'ottima impressione che ebbi leggendo I fasti del grigio: qui noto una maggiore incisività di dettato, una tematica che sempre più tocca il nervo scoperto del contemporaneo, di questa straziante deriva; stupendo l'intervallarsi di temi vari: le ecografie di un figlio in arrivo, con le riunioni aziendali in cui si deciderà chissà cosa, poi, mentre il mondo va in frantumi, fra tradimenti e solitudini che ci trasformano in statue di carne e tristezza; l'attesa di una piena di acque come il riflesso in un monitor buio sono davvero l'effigie di questo tempo, e tu sai cantarla, scolpirla con la tua voce piana, come corrente che, anche se lenta, porta catastrofe, veicola le anime verso un rifugio costruito da parole. Questo, intanto; come per dirti, sì, è vero, ai poeti è dato solo l'onore della polvere, ma io, sulle tue pagine, non l'ho lasciata posarsi. E ti sono grato di avermele mandate, di avermi reso partecipe di questo tuo importante lavoro.